Dossier sui “mantra” scagliati contro il PD. (3/13) Il PD non ha fatto autocritica.

“Mantra” numero 3. Pubblichiamo il terzo di una serie di 13 articoli in cui Enzo Puro prova, al fine di affrontare una seria analisi della sconfitta democratica, a sgomberare il campo dai falsi argomenti, dalle caricature giornalistiche, dalle prese diposizione ideologiche.
E questo non per togliere a Matteo Renzi le sue responsabilità o per provare a scaricare le responsabilità della sconfitta sugli avversari o peggio sugli elettori. Ma per potersi dedicare con serietà all’opera di ricostruzione.

Letto 5019
Dossier sui “mantra” scagliati contro il PD. (3/13) Il PD non ha fatto autocritica.

Abbiamo chiaro che quando si perde non può essere colpa degli avversari o peggio degli elettori.
Ma per dedicarsi con pazienza a ricostruire o, se volete, a rigenerare è necessario sgomberare il campo dai falsi argomenti, dalle caricature giornalistiche, dalle prese di posizione ideologiche.
Il dossier che pubblichiamo su Manrico.social, composto da 13 articoli, vuole assolvere a questo compito senza voler essere una assoluzione del giovane leader fiorentino.

Link agli articoli:
Renzi e il voto degli operai e dei disoccupati
Il PD non è più un Partito di sinistra
Il PD non ha fatto autocritica
Il peggiore risultato della sinistra
Lontananza dalle sofferenze sociali ed aumento della povertà
Il Jobs act ha reso più precario il lavoro
Partito dei ricchi (banche, imprese proprietari di case)
Renzi ha ucciso la scuola pubblica
Promossi solo quelli del giglio magico
10 Renzi ha voluto il rosatellum
11 Il cattivo carattere e gli errori di Renzi
12 Moltissimi elettori del PD hanno votato 5 stelle
13 Renzi non è stato chiaro sull’Europa

MANTRA N° 3:

NON È STATA FATTA ALCUNA ANALISI AUTOCRITICA DELLA SCONFITTA?

Altro mantra tipico di una certa sinistra è l’accusa ai dirigenti che perdono una elezione di non fare alcuna autocritica e nessuna analisi della sconfitta.

In questa accusa non c’è nulla di vero, è solo un artificio retorico per mettere sotto accusa il gruppo dirigente uscente.

Per carità se un gruppo dirigente perde è giusto sottoporlo ad una critica profonda. Ma il mantra in questione è di una banalità sconcertante.

Perché l’analisi, che è comunque iniziata, a mio avviso, non ha bisogno di ansie di prestazione, deve andare nel profondo scevra da qualsiasi intreccio con le lotte di potere che sono il vero motivo dell’attacco concentrico contro Matteo Renzi.

Ed è iniziata il giorno dopo la sconfitta con le dimissioni di Matteo Renzi ed una sua inequivocabile dichiarazione:

“Siamo passati da 13 milioni di voti del referendum ai 6 milioni di domenica scorsa. Abbiamo dimezzato i voti assoluti rispetto a quindici mesi fa. Allora eravamo chiari nella proposta e nelle idee. Stavolta — e mi prendo la responsabilità — la linea era confusa, né carne né pesce: così prudenti e moderati da sembrare timidi e rinunciatari. Dopo un dibattito interno logorante, alcuni nostri candidati non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd, ma solo sulla loro persona.

Lei conosce qualcuno che entra in un negozio se persino il commesso dice che la merce in vendita non è granché? Poi ci sono ragioni più profonde. Internazionali: ha letto cosa dice Bannon, il primo ideologo di Trump, sull’Italia capitale del populismo? E nazionali, a cominciare dal disastro nel Sud. Ci attende una lunga traversata nel deserto”.

Come nel suo stile una dichiarazione sintetica ed efficacissima.

Forse Veltroni vorrebbe una analisi che parta dalla situazione internazionale ed arrivi alla fontanella del quartiere, quelle analisi fintamente profonde, avvolte dagli sbadigli, tipiche di una certa sinistra e fatte con l’indice ed il medio appoggiati al mento e gli occhi illanguiditi rivolti in un punto lontano (all’orizzonte, nel vuoto, boh?).

Tommaso Nannicini, giovane professore di economia e appartenente al gruppo dirigente vicino a Renzi mette in fila, autocriticamente, i tre elementi che hanno finito per soffiare sulle vele di forze estremiste e populiste:

Primo: le ferite ancora aperte della crisi economica (rispetto alle quali, noi del Pd, avremmo dovuto mostrare più empatia, facendo capire che per cicatrizzarle occorrono tempo e scelte coraggiose, come quelle che avevamo iniziato a fare).

Secondo: il fascino di soluzioni tanto semplici quanto illusorie rispetto a nuove insicurezze (a fronte della nostra incapacità di inserire in una “costituzione emotiva” risposte più solide perché più complesse).

Terzo: il malcontento verso un rinnovamento troppo lento o scarsamente selettivo della nostra classe politica.”

Cosa c’è da dire più di questo se non fare retorica a buon mercato?

E parole nette ha poi scritto una filosofa riformista, sostenitrice del nuovo corso di Renzi, come Claudia Mancina:

“Non c’è dubbio che il Pd debba ritrovare la sintonia con i ceti popolari, che sono i più colpiti dalla crisi, e più in generale dagli effetti della globalizzazione. Dubito però che questo obiettivo possa essere raggiunto con la mossa francescana di porsi “al fianco degli umili”, o in mezzo al popolo, o vicino a chi soffre (secondo i diversi linguaggi usati).

Certo che bisogna avere empatia verso le persone in difficoltà; ed è vero che il Pd negli ultimi anni di empatia ne ha mostrata poca. La narrazione ottimista, che voleva stimolare la ripresa civile del paese, è stata forse eccessiva, ha dato la sensazione di indifferenza ai problemi di tanta gente, soprattutto al Sud. Mentre al Nord è apparsa altrettanto indifferente ai problemi della sicurezza.

La comprensione e l’empatia vanno ritrovate; ma la vocazione e l’ambizione di una forza politica è molto più grande, e anche più difficile: costruire un progetto politico che punti a risolvere le difficoltà dei ceti popolari. Il tema dunque è il progetto politico. Viviamo un’epoca di ridefinizione di tutti i nostri abituali parametri: non possiamo pensare di affrontarla con i soliti rassicuranti luoghi comuni.

Si pensa davvero che ai problemi dell’oggi sia ancora adeguato un progetto di sinistra novecentesca, che si limiti a pensare una redistribuzione passiva – divisione di una torta sempre più piccola e rinsecchita?

Il problema drammatico che dobbiamo affrontare è come rilanciare la crescita – non solo economica, ma sociale, civile, culturale – per tutti, nelle difficoltà create da fenomeni come la concorrenza dei paesi emergenti, la delocalizzazione delle attività produttive, la rivoluzione cognitiva prodotta dalla rete.

I ceti più deboli possono essere sostenuti in modo efficace soltanto all’interno di un progetto di crescita, e quindi soltanto all’interno di una alleanza con i ceti più forti e produttivi. Deboli e forti insieme, nel quadro di una netta scelta europeista: solo così si può pensare di vincere la sfida.

Penso quindi che, lungi dal tornare indietro, si debba fare uno sforzo ulteriore nella definizione di una identità politica riformista, più coerente e più consapevole di quanto non sia stata in questi anni. La leadership di Renzi non ha sbagliato per troppo riformismo, ma piuttosto per non avere sufficientemente pensato e difeso il proprio riformismo, almeno nell’ultima fase. Anzitutto all’interno dello stesso Pd.”

Programma di pubblicazione

Nei prossimi articoli ci domanderemo se è vero  se è vero che Renzi ci ha consegnato il peggior risultato della sinistra dal dopo guerra ad oggi, se è vero che siamo stati lontani dalle sofferenze sociali e con Renzi la povertà è aumentata, se è vero che il Jobs act ha reso più precario il lavoro, che ha peggiorato le condizioni lavorative rendendo il mercato del lavoro un far west, se è vero che il PD di Renzi è stato il Partito dei banchieri, che Renzi ha sprecato risorse per aiutare le imprese, che ha tolto l’IMU ai ricchi, che ha ucciso la scuola pubblica, che ha promosso solo quelli del giglio magico, se è vero che Renzi ha voluto il rosatellum, se è vero che ha un pessimo carattere, chiuso verso gli altri, che moltissimi elettori PD hanno votato 5 stelle, se è vero che Renzi non ha avuto una linea chiara sulla Europa.

 

Letto 5019

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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