Fordismo, post fordismo, società della informazione. La crisi epocale della sinistra di fronte ai cambiamenti. Capitolo 1 di 4.

In questi “bignamini” Enzo Puro prova a descrivere nella maniera più semplice possibile (per quanto sia possibile descrivere semplicemente fenomeni molto complessi) cosa è stato negli ultimi 30 anni quel “cambiamento” di cui tutti, spesso senza sapere di cosa si parla, ci riempiamo la bocca. Sappiamo, ce lo ha insegnato Alaine Touraine, che la fine di un mondo non è la fine del mondo e che quindi anche la fine della vecchia sinistra novecentesca non è la fine della sinistra.

Letto 4012
Fordismo, post fordismo, società della informazione. La crisi epocale della sinistra di fronte ai cambiamenti. Capitolo 1 di 4.

La sinistra non riuscirà più ad essere egemone nella società occidentale contemporanea se nei suoi ragionamenti sulle sconfitte non uscirà dalla cronaca di ogni giorno per capire perché, come dice Michele Mezza nel suo Algoritmo di libertà, “il movimento erede della grande narrazione del conflitto operaio del Novecento si trova spiantato, divelto, sballottato….ed è ovunque privo di un suo vero radicamento sociale, di una sua storica capacità di cogliere i processi sociali, individuare le contraddizioni dinamiche, mediare gli interessi, rappresentare i conflitti. Le sue radici popolari, scoperte dal dissodarsi del terreno industriale, inaridiscono velocemente. In tutto il mondo la sinistra del lavoro appare marginale ed è per lo più arroccata in identità para settarie, se non alimenta addirittura il campo opposto, infoltendo le fila di movimenti reazionari e protestatari.”

In questi “bignamini” provo a descrivere nella maniera più semplice possibile (per quanto sia possibile descrivere semplicemente fenomeni molto complessi) cosa è stato negli ultimi 30 anni questo “cambiamento” di cui tutti, spesso senza sapere di cosa si parla, ci riempiamo la bocca.

Sappiamo soltanto, ce lo ha insegnato Alaine Touraine, che la fine di un mondo non è la fine del mondo e che quindi anche la fine della vecchia sinistra novecentesca non è la fine della sinistra.

(Alla fine di questo primo capitolo troverete una succinta bibliografia che vi potrà aiutare ad approfondire i temi che affronto qui a volo di uccello ed ha il compito di segnalare gli autori di cui sono debitore avendo saccheggiato, in questi articoli, i loro scritti).

Partiamo con una banalità.

Le organizzazioni politiche tradizionali (soprattutto quelle della sinistra ma non solo) erano strutturate, diciamo così, sul modello fordista.

Ed il modello fordista, semplificando ancora, si basava sulla grande fabbrica che era una ordinatrice di senso dell’intera società e costituiva il modello per ogni formazione sociale.

Avevamo aggregati enormi di operai dentro la grande fabbrica e, appena fuori ai suoi confini, avevamo i quartieri operai costruiti a ridosso della grande fabbrica. E nei quartieri operai c’era la lega sindacale, la sezione di Partito, il dopolavoro, la Casa del popolo.

Era una società compatta (se vogliamo usare un termine baumanniano possiamo dire che era una società solida). Dove i programmi di vita non erano a breve. Si riusciva a programmare la propria vita a lungo termine.

E lo spazio sociale, cioè la trama delle relazioni personali, coincideva con lo spazio fisico (tenete a mente i concetti di spazio sociale e spazio fisico perché ne parleremo a lungo, insieme al concetto di spazio pubblico, in un prossimo capitolo).

Gli avvenimenti più importanti nella vita di una persona si svolgevano sul territorio, nello spazio fisico.

Si nasceva in un modo e si aveva la ragionevole sicurezza di morire senza aver cambiato molto della propria esistenza.

L’investimento sul futuro era sui propri figli. Il sogno di quei lavoratori era di avere un figlio dottore (come sprezzantemente afferma l’amico della Contessa nella famosa canzone sessantottina scritta da Paolo Pietrangeli).

La produzione, finalizzata a produrre beni che sarebbero in seguito diventati beni di prima necessità (il frigorifero, la lavatrice, la televisione, l’automobile) aveva, a partire dal secondo dopoguerra, un mercato immenso. Il simbolo di quel modello produttivo erano le scorte di beni, i piazzali della Fiat o i magazzini dei produttori di elettrodomestici dove venivano stipate le produzioni in attesa di essere vendute. Si produceva, diciamo così, al buio sapendo che il mercato tirava e si sapeva che quei beni sarebbero stati venduti (tutto il contrario di oggi che si produce sugli ordini, just in time).

Altra caratteristica di quel modo di produzione era il suo legame con lo Stato nazionale e con il territorio circostante.

La Fiat era una azienda italiana, con i suoi uffici in Italia e che pagava le tasse in Italia. Agnelli aveva il suo Ufficio fisso al Lingotto. Ed uno sciopero in fabbrica aveva effetti pesanti sulla produzione ed il datore di lavoro doveva scendere a patti per evitare di subire danni maggiori (tenete a mente questo aspetto perché oggi non è più cosi, come vedremo).

Tutta la società si conformava a questo modello. La stessa P.A. funzionava secondo i principi gerarchici della società fordista.

I Partiti avevano, in questo contesto, un ruolo educativo e pedagogico.

Per tantissimi andare in Sezione significava formarsi e significava avere informazioni.

Non c’erano tanti strumenti per informarsi. Per questo ai comizi ci andava una marea di gente (fate mente locale invece sulla enorme quantità di informazioni che oggi ci aggrediscono da ogni punto, in un sito di un giornale on line ci sono più informazioni di quante gli essere umani se ne sono scambiate negli ultimi 200 anni).

E come la fabbrica fordista era strutturata gerarchicamente così lo erano i Partiti politici dove il flusso di input e di informazioni era sempre a scendere dall’alto verso il basso.

Questo modello di produzione cominciò ad entrare in crisi già nei primi anni 70 (e di conseguenza entrò in crisi la formazione sociale a cui aveva dato vita).

Il mercato era saturo. In Occidente ormai tutte le famiglie avevano i loro elettrodomestici e le loro automobili. E fuori dall’Occidente c’era ben poco. Le scorte cominciarono a rimanere troppo a lungo sui piazzali e nei magazzini. Cominciò a manifestarsi l’esigenza di cambiare modello produttivo.

Si cominciò a puntare sui servizi. Il lavoro manuale cominciò ad essere svalutato. Qualcuno, a mio avviso sbagliando, teorizzò la fine del lavoro.

Lentamente a partire dagli anni 70 le grandi agglomerazioni operaie, le grandi fabbriche cominciarono a scomparire. Ed i grandi numeri a ridursi.

Per avere fisicamente davanti agli occhi l’immagine di questo radicale cambiamento basta farsi un giro in quelli che un tempo erano i luoghi principali della nostra manifattura; in quei luoghi abbiamo un panorama di scheletri produttivi, di manufatti abbandonati, di archeologia industriale che un tempo erano pieni di vita operaia.

Il post fordismo cominciò a mettere in discussione molte nostre certezze politiche anche se per tutti gli anni 80 e gli anni 90 non si avvertiva questo netto cambio di passo.

Le forze politiche non avvertirono per tempo quanto stava cambiando. Eppure i grandi sociologi europei già da tempo studiavano questi cambiamenti.

La cassetta degli attrezzi della politica rimase invece quella che era prima.

Non prevenne e non si riadattò ai nuovi paradigmi.

Ma il vero salto che sconvolse tutto avvenne con la rivoluzione informatica, con la rivoluzione nelle comunicazioni (i cellulari) e con la rivoluzione dei trasporti (i grandi aerei cargo ed i container di nuovo tipo)

La società della informazione, scaturita dall’intreccio tra la rivoluzione epocale delle tecnologie informatiche e trasportistiche e la finanziarizzazione estrema della economia, è una formazione economica sociale di nuovo conio, diversamente definita da pensatori anche di scuola diversa, chi la chiama capitalismo tecno nichilista (Magatti), chi supercapitalismo (Robert Reich) chi turbo capitalismo (Giorgio Ruffolo).

Non resta che prenderne atto, come Carlo Marx a metà ottocento prese atto di quel nuovo fenomeno, il capitalismo industriale, che spuntava da sotto le antiche vestigia feudali dell’ancien regime (e che ci mise tantissimo a prendere l’egemonia).

Marx fece una grande operazione teorica a suo tempo (da cui scaturirono concrete indicazioni pratiche), dando credibilità alla nuova formazione economico-sociale, la inquadrò sottolineandone i suoi fattori negativi ma ne estrasse i fattori positivi di innovazione (combatté contro il luddismo che teorizzava la distruzione delle macchine) e ne fece discendere una scienza politica (diversamente articolata poi nel secolo successivo tra i riformisti socialdemocratici e gli stalinismi vari dei comunisti).

La società attuale è frammentata e liquida, non ha più un centro ordinatore unico, i confini sono sempre più porosi e mobili, la deterritorializzazione, IL NON ESSERE CIOE’ PIU’ LEGATA AD UN TERRITORIO SPECIFICO, è una caratteristica del potere delle nuove élites.

(continua)

 

P.S. Breve bibliografia:

Manuel Castells. “L’età della informazione. Economia, società, cultura” 3 volumi. Edizioni Bocconi

Zygmunt Bauman “Modernità liquida” Edizioni Laterza

Zygmunt Bauman “La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza” Edizioni il Mulino

Ukrich Beck “La società del rischio. Verso una seconda modernità” Editore Carocci

Alaine Touraine “Libertà uguaglianza diversità”. Edizioni Carocci

Marco Revelli “Sinistra Destra. L’identità smarrita”. Edizioni Laterza

Marco Revelli “Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro”. Edizioni Einaudi

Aldo Bonomi “Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità” Edizioni Feltrinelli

Mauro Magatti “Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno nichilista” Edizioni Feltrinelli

 

1 - Fordismo, post fordismo, società della informazione

2 - Le domande fondamentali da farsi

3- Spazio sociale, spazio fisico, spazio pubblico

4 - La crisi del politico

Letto 4012

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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