Dopo il referendum torni la politica (prima che sia troppo tardi)
Secondo Daniele Fichera (consigliere regionale e membro della segreteria nazionale del PSI) la vittoria di Trump non dipende solo dalla debolezza di immagine della Clinton. Pone questioni politiche che le sinistre europee devono affrontare per non sparire
- Scritto da Daniele Fichera
- Pubblicato in Politica
Negli Stati Uniti il Prodotto interno lordo è cresciuto durante gli anni della presidenza Obama dell’8% (grazie alle politiche di apertura internazionale dell’economia ed ai bassi tassi di interesse praticati dalla FED) e l’occupazione, dopo aver toccato il minimo nel 2010, è risalita di quasi dieci milioni di unità (7%).
Come è possibile che gli americani abbiano votato contro le politiche economiche che hanno consentito la ripresa della loro economia? Basta a spiegarlo lo scarso appeal della figura di Hillary Clinton identificata come espressione di un establishment oligarchico?
Forse la spiegazione è più complessa e va cercata anche nelle caratteristiche di “polarizzazione” dello sviluppo generato dalla globalizzazione, anche nei casi migliori come quello statunitense.
E’ vero, infatti, che i posti di lavoro persi per la delocalizzazione nella produzione di commodity (beni e servizi standardizzati –dalle automobili ai call center-) vengono rimpiazzati dai posti di lavoro creati nella produzione (o in alcune fasi della produzione) di beni e servizi innovativi e specializzati; ma solo una parte ridotta di questi nuovi posti di lavoro sono relativi ad attività ad alto valore aggiunto e ad alto reddito (i programmatori della silicon valley, i creativi della comunicazione, gli avvocati e i broker della finanza). Il grosso sono posti di lavoro a bassissima qualificazione e basso reddito destinati al mercato interno dei servizi (gli addetti alle pulizie e i camerieri dei ristoranti) prevalentemente coperti da manodopera di più o meno recente immigrazione.
Inoltre queste dinamiche sono territorialmente concentrate, premiando alcune aree geografiche metropolitane (che riescono a creare un ambiente adatto all’innovazione) a scapito di altre che rimangono ferme o regrediscono.
Questa polarizzazione delle opportunità colpisce soprattutto il ceto medio che costituisce, in gran parte delle democrazie avanzate, il grosso del corpo elettorale la cui percezione di impoverimento non è compensata dalla disponibilità di beni importati a basso prezzo e la cui sensazione di insicurezza non è compensata da modesti allargamenti delle politiche sociali (come l’obamacare).
La reazione è l’adesione a velleitarie posizioni isolazioniste che dichiarano di voler fermare la mobilità globale delle merci, delle persone e dei capitali. Non interessa che non siano in grado di spiegare come, l’importante è che le dichiarazioni di intenti rispecchino gli stati d’animo.
Se questo è avvenuto negli Stati Uniti in crescita figuriamoci cosa potrà avvenire nell’Europa in stagnazione economica da un decennio.
Le “sinistre” democratiche e riformiste potrebbero essere travolte e rese politicamente marginali da queste dinamiche, che rischiano di lasciare in campo solo i populismi isolazionisti e le espressioni degli establishment globalisti (da una parte le Le Pen e dall’altra gli Juncker) a cui i due segmenti di una sinistra divisa finirebbero per accodarsi in posizioni subalterne.
Tuttavia questo destino non è inevitabile. Servono persone di buon senso e buona volontà che si oppongano a queste derive e cerchino di ricostruire una rappresentanza politica “progressista” che abbia il coraggio per riconoscere le domande che le criticità della globalizzazione pongono e le competenze per individuare risposte non velleitarie sulla “regolazione” dei flussi di capitali, merci e persone.
Perché abbia successo questo tentativo va fatto a livello europeo, ma intanto sarebbe il caso di cominciare a farlo a livello nazionale e locale.
Magari subito dopo il referendum, comunque vada. Sarà più facile, però, se vince il Sì.
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Daniele Fichera
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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