Delusione Zingaretti. Un ritorno al ‘900.

L’incapacità della nuova leadership del Pd a leggere le grandi trasformazioni sociali avvenute in Occidente negli ultimi 30 anni. Incapacità che portano a parlare ancora di recupero del “nostro popolo” e “rottura sentimentale”. Ma quel popolo non c’è più. Non esiste. È altra cosa. Non regge ad una analisi più approfondita lo scaricare tutte su Renzi le responsabilità della sconfitta del 4 marzo. Le lunghe derive storiche che hanno portato ad una crisi elettorale della sinistra in tutto l’occidente. Perché non basta spostarsi più a sinistra. Sarebbe troppo semplice. Il ritorno ai tamburi di latta del XX secolo.

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Delusione Zingaretti. Un ritorno al ‘900.

Provo una profonda delusione per le prime prove di Nicola Zingaretti come segretario del PD, delusione che certo non sarà acquietata da un +1 o un +2% che il PD potrebbe prendere alle Europee rispetto alle politiche.

In cuor mio, pur non avendolo votato, speravo, conoscendolo fin da ragazzo come un innovatore, di essere stupito. Speravo cioè che, liberandosi da vecchi condizionamenti e gettando il cuore oltre l’ostacolo, puntasse ad una innovazione radicale rispetto alla vecchia ed anchilosata sinistra.

Che la speranza fosse mal riposta dovevo capirlo dall’affollarsi attorno a lui non solo di vecchi esponenti della “lupa magica” ma anche dai capi bastone che nessuno, nemmeno lo stesso rottamatore Renzi (e qui segnalo un suo errore) è riuscito in questi anni a mettere ai margini.

Tale delusione si trasforma in sconcerto leggendo l’introduzione al suo libro “Piazza grande” pubblicata su Democratica dove, oltre ad una analisi classica e stucchevole della base elettorale di Lega e 5 stelle, ritornano vecchie affermazioni care alla ditta bersaniandalemiana laddove parla della “necessità di recuperare il nostro popolo” oppure di “rottura sentimentale”.

Due affermazioni che la dicono lunga sulla sua incapacità a leggere le grandi trasformazioni sociali avvenute in Occidente negli ultimi 30 anni e che in passato ho provato a riassumere nei 4 articoli contenuti in questo link: Fordismo, post fordismo, società della informazione. La crisi epocale della sinistra di fronte ai cambiamenti. Capitolo 1 di 4

Che l’uso di questi due cliché (“un nostro popolo” che però non sappiamo più definire e “la rottura della connessione sentimentale”) fossero diretti solo contro quel breve frammento della nostra storia recente che per convenienza possiamo identificare nel Governo dei 1000 giorni e nella segreteria Renzi lo si capisce quando Zingaretti nello stesso paragrafo afferma la necessità di passare dalla propaganda autocelebrativa, che è durata troppo tempo, a una battaglia ideale e culturale costruttiva e a un’iniziativa di opposizione in grado di creare spazi, di allargare contraddizioni e bla e bla e bla…”.

Frase in cui l’unica cosa che si comprende molto bene è quella su una propaganda autocelebrativa durata troppo tempo (evidente riferimento ai risultati dei 1000 giorni, la cui incontrovertibilità però la nuova gestione del PD non potrà suo malgrado mai cancellare) mentre il resto è fuffa, politichese puro, petizioni di principio ascoltate nella mia vita politica mille e più mille volte.

Sia chiaro, qui non vogliamo mettere in discussione la pesantezza della sconfitta del 4 marzo. Quello che però vogliamo mettere radicalmente in discussione è la interpretazione della sconfitta tutta caricata sulle spalle di Matteo Renzi e del suo governo, una interpretazione che dà per scontata la punizione dell’elettorato per politiche, a loro dire, troppo moderate, avvertite, scrive il segretario, come “espressione degli strati sociali protetti e di un mondo ormai estraneo”. Cazzate!!!

Tale interpretazione, pur non escludendo da parte nostra l’incidenza sul voto di alcuni errori, è una interpretazione consolatoria, autoreferenziale che ci dice in sostanza basta cambiare le parole d’ordine, basta spostarsi più a sinistra, per recuperare il voto “del nostro popolo” (come se questo nostro popolo esistesse davvero e non fosse stato anch’esso frammentato e scisso da 30 anni di profondi cambiamenti epocali).

Una interpretazione che, come ci insegna Alaine Touraine, non tiene conto della crisi del Pensiero Interpretativo Dominante proprio di una vecchia sinistra novecentesca e non capisce la necessità di un paradigma interpretativo del tutto diverso che rimetta, al centro del discorso l'individuo e i suoi diritti, da quelli politici a quelli culturali, "per costruire un nuovo modo di pensare i fatti sociali e analizzare i comportamenti umani".

Quindi recuperare consenso per la sinistra non è così semplice. Se lo fosse le formazioni alla sinistra del PD avrebbero intercettato quel voto di protesta e di rabbia che invece ha gonfiato formazioni populiste, identitarie e xenofobe.

Se non si capisce la radice vera di quel voto e di quella sconfitta per il futuro regaleremo per sempre il nostro paese e forse l’intero continente alle forze di destra (comunque mascherate dietro l’ideologia populista e sovranista)!!!

Restare inchiodati alla cronaca politica con il solo obiettivo di recuperare pezzi di apparato e loro clientes che erano stati spazzati via dal rinnovamento renziano e che oggi si godono una loro rivincita, significa non capire che la Politica si svolge e si sviluppa dentro lunghi processi storici (Braudel chiamava questi processi le lunghe derive della Storia); significa cioè non capire che la sconfitta (che è globale e non si limita soltanto al nostro paese) è il frutto di questi processi storici e non si può ridurre tutto, come dice Alberto De Bernardi, ad una “damnatio memoriae di Renzi”.

Tale “damnatio memoriae” diventa così la base ideologica, per il nuovo/vecchio corso del PD, su cui ricostruire e rigenerare il campo politico del centrosinistra (fino a parlare nella richiesta agli elettori di sottoscrivere il 2 per mille di un “nuovo” PD, nuovo rispetto al PD di Renzi ma molto ancorato al vecchissimo PD della Ditta e dell’apparato come è evidente anche dai nomi di quegli esponenti che vengono mandati come commissari di Federazioni un po’ inquiete).

Ricostruzione e rigenerazione che, oltre alla derenzizzazione, non hanno alla base nessuna forte idea guida, nessuna visione di società, nessuna missione ben delineata, nessun nuovo paradigma interpretativo.

Non si capisce cosa si deve “ricostruire” o “rigenerare” o dove “bisogna tornare”, se al Prodi dell’Ulivo o al D’Alema antiulivista ed anti PD, al Prodi dell’Unione o al Bersani di Italia Bene Comune, a Leu che si astiene sul DEF di Salvini e Di Maio o al nazionalismo antieuropeista alla Melenchon, che trapela in molte prese di posizione a sinistra?”.

In sostanza ci è molto chiaro che, per quanti errori possa aver fatto Renzi, questi errori non possono spiegare né essere la causa più importante della profondità della sconfitta che ha radici più lontane.

Come abbiamo cercato di spiegare essa è invece il frutto di una lunga deriva che da decenni ha investito la sinistra, una sinistra che, dopo il crollo dei regimi dell’est non ha saputo rinnovarsi profondamente, non solo in quella compagine derivata direttamente dai vecchi Partiti Comunisti ma anche in quella compagine Socialista che in Europa era stata per fortuna un argine allo strapotere del blocco sovietico e dei suoi partiti fratelli dell’Europa occidentale (con tutti i distinguo possibili che pur vogliamo fare dell’eurocomunismo italiano a cui sono sentimentalmente legato).

Quella deriva in tutta Europa si manifesta platealmente alle elezioni europee del 2014 e si concretizza nel successo clamoroso della Le Pen in Francia, di Farage in Gran Bretagna e del Partito popolare in Danimarca. Quell’anno, mentre tutti i Partiti di sinistra tradizionali perdevano clamorosamente, solo argine alla crisi del socialismo europeo fu quel 40% del PD che consentì di riequilibrare le altre sconfitte nazionali.

Una deriva globale che elezione dopo elezione ha visto scomparire il Partito Socialista Francese, quello Greco, quello Olandese, ha visto la crisi profonda dei socialdemocratici del Nord Europa (basti pensare che in Finlandia i socialdemocratici un tempo avevano percentuali bulgare mentre oggi si festeggia come una vittoria un risultato poco sopra il 20%), una deriva globale che, in altri continenti, ha visto la vittoria di Trump negli Usa e quella di Bolsonaro in Brasile (ricordo a proposito la fulminante risposta del filosofo Bernard Henry Levy alla Annunziata, risposta in cui gli rammenta che tutte quelle sconfitte non sono certo colpa di Renzi).

Quella deriva che per la prima volta in Italia aveva impattato nel 2013 con la “non vittoria” di Bersani quando il PD perse oltre 3 milioni e mezzo di voti passando dal 34% di Veltroni al 23%, una deriva che si era momentaneamente interrotta grazie alla freschezza, alla energia ed alla novità del trentottenne ex Sindaco di Firenze.

Paradossalmente Matteo Renzi dovrà essere ricordato non come il leader che ha provocato la scomparsa della sinistra in Italia ma come il leader che nel 2014 era riuscito a bloccare, invertendola (ecco il senso di quel 40%), una deriva iniziata molti anni prima (penso al 17% dei Democratici di Sinistra racimolato nella ultima elezione politica con il simbolo della Quercia).

Negli anni successivi al 2014 lo sprint iniziale, che designerà a mio avviso nella storia (altro che toni autocelebrativi!) quei 1000 giorni come una proficua stagione politica di riforme profonde ed innovative, si è affievolito e Matteo Renzi è rimasto impaludato da una sorda opposizione interna (fino alla scissione) e da una esplicita opposizione che ha coalizzato i tanti interessi colpiti dalle riforme, interessi che si sono fatti interpreti strumentalmente della sofferenza sociale frutto della grande crisi globale del 2008 che certo non poteva essere cancellata in soli 1000 giorni.

Ed è stata la paura, a sinistra, di concedere a Matteo Renzi un potere troppo grande che ha contribuito a ridare fiato ai meccanismi di sganciamento dalla realtà in cui da tempo era imprigionata l’intera sinistra occidentale spiazzata dai cambiamenti.

Ed i meccanismi di questo processo che viene da lontano, come ci spiega sempre Alberto De Bernardi, sono il frutto “dell’intreccio perverso di due debolezze”: la prima debolezza è quella dell’indebolimento degli Stati nazionali bypassati dalla globalizzazione” la seconda discende dalla crisi dell’appeal del sogno europeo con una UE “che non riusciva a mettere in campo politiche macroecomiche e finanziarie all’altezza della crisi” indebolita com’era “dalle sue divisioni strategiche, dalle miopie delle sue élites politiche dominanti, dalla effettiva durezza della crisi e dalle migrazioni di massa”.

Ed è questo che ha fatto fare un salto elettorale consistente alle forze sovraniste e populiste, perché quella doppia debolezza (degli Stati nazionali e della UE) “ha fatto saltare i rapporti  tra eguaglianza e libertà, tra profitto e benessere, su cui si erano rette per mezzo secolo le società democratiche occidentali: ha rotto in sintesi in Occidente, quel rapporto tra sviluppo economico e emancipazione sociale e civile, che ha coinvolto pienamente il lavoro e ha fondato i sistemi politici nelle democrazie di massa”.

Finito da un lato nell’ignominia il comunismo, entrata in crisi dall’altro la socialdemocrazia della vecchia Europa per la incapacità di creare nuovi paradigmi interpretativi, le classi popolari (nel frattempo non più omogenee e così frammentate da far parlare un grande sociologo come Alain Touraine di “fine del sociale”) sono rimaste preda delle ricette populiste e sovraniste più semplici e pericolose.

E piuttosto che fare riferimento, come fa Zingaretti, “all'elaborazione di un pensiero critico in grado di evitare che sotto le macerie del comunismo morisse soffocata ogni spinta alla liberazione umana” bisognerebbe cominciare a ragionare (ragionamento che in Italia non è mai stato fatto) su come superare quell’intreccio perverso tra crisi degli Stati nazionali e crisi della missione della UE di cui ho parlato finora.

E dobbiamo aggiungere anche che in quella frase del segretario c’è come un pensiero nascosto, un residuo dello spirito di superiorità morale proprio dei comunisti, come se l’unica spinta alla liberazione umana fosse intrecciata alla esistenza delle dittature dell’est, offendendo così quella tradizione socialista e socialdemocratica europea che, concretamente, nel secondo dopoguerra, opponendosi così al comunismo sovietico e ad un marxismo ideologizzato, si è inventata non a chiacchere il Welfare State dando un contributo fondamentale ed unico alla effettiva liberazione umana nel vecchio continente.

No, non è stato il crollo del comunismo la causa dell’affievolimento di quell’afflato collettivo verso la liberazione umana e basterebbe soltanto frequentare di più le pagine di grandi sociologi europei come Bauman, Beck o appunto Touraine per rendersene conto. Ma forse ad una sinistra presuntuosa che sa tutto a prescindere è come chiedere troppo!!!

Ma torniamo a noi ed ai motivi veri della pesante sconfitta del 4 marzo 2018 e ci torniamo con le parole di Alberto de Bernardi quando, parlando appunto di quella sconfitta, scrive che “la proposta del progressismo europeista incarnata da Renzi e dal Pd non ha retto l’urto del sovranismo populista dei 5S e della Lega, come il partito democratico statunitense non ha retto l’offensiva di Trump o come gli europeisti britannici sono stati sconfitti dai fautori della brexit, come era già accaduto in Danimarca nel 2015 con la caduta del governo socialista guidato da Helle Thorning-Schmidt”.

Fa impressione la cancellazione nella narrazione del nuovo segretario del PD di ogni riferimento ai risultati del governo dei 1000 giorni tanto da arrivare in una intervista a Lerner ad esaltare i risultati riformisti del primo governo Prodi senza neanche un accenno a quella stagione dei 1000 giorni che ben più dei governi dell’Ulivo hanno provato a cambiare il nostro paese.

Ma a questa nostra analisi che prova ad andare nel profondo, a non accontentarsi di spiegazioni superficiali e nello stesso tempo a rivendicare i risultati di un grande azione di governo, puntuale come la morte, arriva la domanda pelosa e sacrosanta che molti sprezzantemente ci rivolgono: “ma se avete fatto tutte queste cose perché avete perso?”

Se ci liberiamo dai pregiudizi la risposta a questa domanda è abbastanza semplice. Quei risultati positivi (di cui come Democratici italiani dovremmo andare orgogliosi e non tacerli come invece fa la nuova segreteria del PD), non hanno semplicemente fatto in tempo a raggiungere “quella massa critica in grado di rendere percepibile un’inversione netta di tendenza rispetto al passato” e questo ha consentito ai fautori della società chiusa contro i fautori della società aperta di vincere in contropiede “puntando sulle paure di classi medie impoverite dalla crisi del 2008”.

Si è perso perché non si erano ancora rimarginate quelle ferite sociali, di cui Renzi non ha nessuna responsabilità, inferte dalla crisi globale del 2008 con l'aggravante delle azioni dei governi Berlusconi/Bossi/Salvini fino al 2011 e Monti/Bersani/Berlusconi nel 2011/2012.

La politica riformista dei 1000 giorni ha affrontato di petto quella crisi, ha prima frenato e poi invertito la direzione di marcia verso il baratro, ma i benefici di questa politica non hanno fatto in tempo a consolidarsi nel vissuto quotidiano delle famiglie. È rimasta la paura e la sfiducia su cui hanno fatto presa, come dicevamo, con una campagna perfetta, i populismi.

L’intreccio perverso di quelle debolezze sia della UE che dello Stato nazionale è stato un ostacolo nell’affrontare quella forte crisi di fiducia e quella paura frutto del baratro che in quegli anni le nostre famiglie hanno visto spalancarsi davanti, con molte che in quel baratro ci sono cadute.

Ricapitolando: la sconfitta elettorale del 4 marzo è solo la coda di una lunga deriva frutto del mancato aggiornamento dei paradigmi con cui la sinistra guarda il mondo. Parlare di “nostro popolo” non significa nulla, non esiste un popolo nostro, quel popolo si è trasformato, si è frammentato, ha perso ogni legame sociale, si è individualizzato (ci piaccia o meno) e se ci ha lasciato lo ha fatto da tempo, sin dai primi anni novanta quando troviamo gli operai del Nord alle feste della Lega o a votare per Forza Italia, quando vediamo trasformarsi l’elettorato della sinistra da elettorato operaio a elettorato proveniente soprattutto dal pubblico impiego e dai pensionati e da ceti culturalmente medio alti. Non è stato certo Matteo Renzi a provocare quella crisi di rapporti, quando tutto questo è cominciato Renzi aveva 20 anni e studiava all’Università.

Per la vecchia sinistra, che la vittoria alle primarie di Zingaretti ha, suo malgrado, ringalluzzito, la figura di Renzi è un alibi per nascondere l’incapacità, in 30 anni o giù di lì, di creare una narrazione alternativa alla egemonia del centrodestra che si è pensato di combattere prendendo le armi fuori dal campo della Politica, in quel giustizialismo forcaiolo iniziato nei primi anni 90 che ha poi costituito la base del trionfo populista.

Dobbiamo dire invece che Renzi ha provato a frenare la frana di consensi e ci è riuscito solo in parte ritardando un processo dissolutorio che in Europa, in molte culle della socialdemocrazia, era in atto da tempo.

Come scrivono Armillei e Ceccanti oggi la sinistra non può pensare di rifondarsi usando lo stesso frame dei nazionalpopulisti. La sinistra deve imparare a ragionare in uno schema nuovo che rompa l’egemonia del racconto nazionalpopulista. Altrimenti il voltare pagina sarà solo e sempre un guardare indietro.

E, come dice un grande sindacalista riformista come Marco Bentivogli, al ricorso furbo dei valori tradizionali sovranisti, non si può rispondere con le ideologie.

Non bisogna tornare indietro da quella cultura politica che ha esordito alla grande per la prima volta al Lingotto di Walter Veltroni (altra vittima della Ditta) e che Renzi per 1000 giorni ha trasformato in azione di governo, grazie alla quale, come ci dice Alessandro Maran, “temi come il lavoro autonomo o la libertà individuale sono diventati protagonisti dell’agenda della sinistra italiana”.

Purtroppo invece il PD, e chiudo con questa amara conclusione di Giovanni Maria Cominelli, “dopo aver fatto capolino sul XXI secolo con Renzi, con il riaffacciarsi della vecchia classe dirigente del PCI e della Sinistra DC sta tornando al XX secolo, dove continuano a percuotere tamburi di latta”.

Letto 6746

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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