Mancano molte cose al manifesto di Nicola
Manca la periodizzazione della crisi. C’è un giudizio superficiale sugli ultimi anni di governo. Non basta prendersela solo con il carattere di Renzi. Bisogna capire i motivi per cui Renzi si è trasformato in un bersaglio politico di una moltitudine di forze avverse. Le domande che Nicola non si fa e che invece bisognerebbe farsi. Non ci siamo.
Nicola Zingaretti, di cui ho molto affetto e stima, mi disse circa un anno fa di apprezzarmi perché io sono uno che “pensa quello che dice e dice quello che pensa”.
Spero non cambi idea se in questo articolo, dopo aver molto pensato, dico quello che penso sul suo Manifesto politico pubblicato il 20 marzo.
In un lungo ed equilibrato articolo sul Foglio (dove ad analisi innovative si accompagnano residui di un antico politichese di sinistra e dove per fortuna non si leggono le oscene offese al PD ed a Renzi fatte da Cuperlo ed Orlando e da qualche loro giovane epigono) Nicola Zingaretti prova a spiegarsi la direzione presa dalla rabbia popolare che ha prodotto il voto del 4 marzo.
Ma lo fa a mio avviso confondendo i periodi e mischiando le attività dei governi PD tra i responsabili delle disuguaglianze, dei disagi, dell’enorme aumento delle ricchezze finanziarie.
Scrive infatti Nicola:
“La crisi in questi anni ha colpito duro. Sono cresciute come non mai nella storia del dopoguerra le disuguaglianze.
I dati di Banca Italia ci dicono che un italiano su quattro nel 2016 è a rischio indigenza. Da anni i redditi operai e del lavoro dipendente si sono ridotti nel potere di acquisto, mentre le ricchezze finanziare, immobiliari e i profitti sono enormemente aumentati.
Al contrario di quello che è successo nei trent’anni gloriosi della democrazia europea, la forbice tra chi sta sotto e chi sta sopra è diventata larghissima e insopportabile. Il disagio riguarda le periferie materiali, ma anche quelle che qualcuno ha chiamato le periferie dell’anima.
Perché, ormai, tranne la fascia più alta e privilegiata della popolazione, la percezione della solitudine e dell’abbandono si è diffusa in una vita moderna senza qualità e priva di reti umane e civili.”
Ma in quali anni la crisi ha colpito duro? Quando è iniziata questa devastante crisi globale? La crisi è in via di superamento? E chi ha accompagnato in Italia questo percorso i cui esiti ancora non si vedono sulla vita quotidiana delle persone? Le politiche dei governi Renzi/Gentiloni sono state politiche che non hanno affrontato il tema del disagio sociale? E quale leader ha posto con forza in Europa, accusato da molti anche a sinistra di sgarbo istituzionale, il tema della fine della austerità nella consapevolezza che il disagio e la disuguaglianza provocati dalla crisi del 2008 si combattono con una politica ragionevolmente espansiva? E c’è una differenza tra il PD di Bersani succube della egemonia ordoliberista che ha votato in Parlamento i diktat della troyka sotto Monti ed il PD di Renzi che dall’epoca del semestre italiano si è battuto per rendere più flessibili i parametri di bilancio e rilanciando fino a provare a mettere in discussione il Fiscal compact?
Fare di tutta l’erba un fascio non aiuta.
E non aiuta a capire il mettere sullo stesso piano le irresponsabilità in stile orchestra del Titanic del governo Berlusconi fino al 2011, la macelleria sociale di Monti con la copertura della sinistra di Bersani, le politiche del rinvio di Letta ed i tentativi di invertire la rotta di Renzi (in parte riusciti grazie certo all’aiuto di Draghi ma anche ad una politica economica rigorosa ed espansiva).
Onestà politica vorrebbe allora che si dicesse che il PD ha pagato il fatto di essere stato al governo e che chiunque altro avrebbe pagato questo scotto visto il “sentiero stretto” su cui la politica espansiva ha dovuto inoltrarsi (e, Nicola mi perdoni, ma non regge politicamente il paragone con il lavoro egregio di una Regione dove è più facile fare alleanze, incidendo meno le differenze valoriali).
E se proprio dobbiamo capire il perché, pur in presenza di una buona ripresa della nostra economia, il PD non ne ha raccolto elettoralmente i frutti allora consiglierei a Zingaretti di leggere quanto scrive Tommaso Nannicini QUI in un articolo in cui individua i 3 elementi fondamentali della sconfitta elettorale:
“Primo: le ferite ancora aperte della crisi economica (rispetto alle quali, noi del Pd, avremmo dovuto mostrare più empatia, facendo capire che per cicatrizzarle occorrono tempo e scelte coraggiose, come quelle che avevamo iniziato a fare).
Secondo: il fascino di soluzioni tanto semplici quanto illusorie rispetto a nuove insicurezze (a fronte della nostra incapacità di inserire in una “costituzione emotiva” risposte più solide perché più complesse).
Terzo: il malcontento verso un rinnovamento troppo lento o scarsamente selettivo della nostra classe politica.
Tutti questi elementi hanno finito per soffiare sulle vele di forze estremiste e populiste, che in Italia hanno trovato terreno fertile anche per le storiche debolezze delle nostre istituzioni e per il ruolo che l’anti-politica ha giocato a più riprese nella nostra cultura collettiva”.
E poi non è indifferente ad una maggiore comprensione dell’accaduto il fatto che il frutto della rabbia e del rancore lo abbiano colto forze di destra come la Lega che hanno attirato nelle Regioni rosse anche masse di nostro elettorato.
E questo è avvenuto anche se l’offerta politica a sinistra era molto ampia e fortemente critica nei confronti del PD dimostrando che non ci sono praterie a sinistra e che i vecchi vessilli e le vecchie parole d’ordine sono da riporre nella cassapanca della storia.
Zingaretti dovrebbe fermarsi a riflettere senza pregiudizi sul perché in una città guidata dal PD come Macerata la Lega del pistolero Traini sia balzata dallo 0,6% al 20%.
Ed anche il voto dei 5 stelle non è un voto per i valori della sinistra, quel successo tra l’altro è dovuto allo sfondamento nel Mezzogiorno dove la forza delle sinistre non è mai stata dirompente, anzi.
Di fronte ad un dato come questo dovrebbe essere chiaro che ogni analisi “de sinistra” deve essere buttata nel secchio facendo proprie le parole di Cristoforo Colombo quando sosteneva che per attraversare l’oceano bisogna avere la forza di dimenticare la riva da cui si è partiti.
Nel suo lungo articolo poi Nicola Zingaretti fa una critica molto forte anche se non sguaiata alla gestione politica di questi anni di Matteo Renzi.
Secondo il Governatore del Lazio Renzi, dopo una prima fase in cui aveva acceso la speranza e smosso le acque, “si è via via isolato, ha ristretto a pochi la plancia del comando, ha sottovalutato suggerimenti e critiche sincere, ha fatto delle sue scelte un credo astratto da perseguire ad ogni costo, si è allontanato, in nome del suo riformismo “radicale”, dalla vita del paese reale. Così ha perso l’empatia, la capacità di movimento politico, lo spazio di una riflessione e di un confronto negli organismi dirigenti capace di correggere il corso delle cose”.
Queste critiche possono anche in parte essere vere ma non tengono conto della situazione concreta in cui questa sorta di ripiegamento è avvenuto. Lo dice benissimo Francesco Cancellato, un giovane giornalista de Linkiesta che, riferito ad accuse simili, scrive:
“Tutto vero, ma anche tutto relativo.
Perché puoi avere pure il carattere più bello del mondo - Renzi non ce l’ha - ma se tra te e mezza nomenclatura del partito è guerra all’ultimo sangue, tocca combattere con tutte le armi possibili.
E puoi pure essere la persona più aperta dell’universo - Renzi non lo è -, ma se da Presidente del Consiglio ti ritrovi coinvolto in un’indagine nella quale un carabiniere falsifica le intercettazioni telefoniche per incastrare tuo padre, è possibile che finisci per fidarti solo dei tuoi amici più stretti.
E puoi pure essere il politico più talentuoso della Storia - Renzi non è nemmeno questo - ma se ti chiedono di governare con Berlusconi, cambiando gli assetti istituzionali del Paese, la legge elettorale e il mercato del lavoro, mentre sette banche vanno a puttane e una crisi migratoria cambia la scala di gestione dei richiedenti asilo, è probabile che qualche errore lo commetti.”
In un altro passaggio dell’articolo Zingaretti sintetizza poi efficacemente in questo modo le ragioni della sconfitta:
“La sconfitta subita è certamente la combinazione di questi due elementi: una crisi che viene da lontano e un passaggio contingente nel quale il nostro leader da grande valore aggiunto si è trasformato in un bersaglio politico di una moltitudine di forze avverse”.
È una sintesi corretta ma non spiega i motivi, anzi li ignora, per cui Renzi da valore aggiunto si è trasformato in un bersaglio politico.
Ed i motivi non possono essere certo quelli sopradescritti e legati al suo stile di comando ed al suo carattere. Questi aspetti possono spiegare solo il perché un vecchio apparato si è ribellato fino alla scissione, e si è ribellato non certo per questioni ideali ma solo perché in poco tempo ha perso quel potere assoluto che la Ditta aveva su tutti gli aspetti della politica del centrosinistra.
Non spiegano però perché l’intero establishment e le elites italiane (quell’establishment e quelle elites che sono complici e responsabili della specifica crisi italiana fatta di inefficienza della macchina pubblica e di alto debito pubblico) da un certo punto in poi hanno bersagliato senza scampo Matteo Renzi (e perché continuano a farlo ancora, dopo le sue dimissioni e dopo la sconfitta).
Se provasse a spiegarselo Zingaretti capirebbe che, al netto della rabbia sociale e del disagio, la rivolta delle elites è avvenuta perché il giovane fiorentino probabilmente aveva cominciato a fare sul serio avviandosi a smontare antiche abitudini di un paese che su queste antiche abitudini aveva costruito la sua pace sociale ma anche la caterva del suo debito pubblico.
E di queste antiche abitudine ne è un piccolo esempio quella riserva indiana del Cnel dove trovano ristoro alla fine della loro carriera eminenti sindacalisti, industriali, politici; così come altro piccolo esempio è il tetto allo stipendio dei dirigenti pubblici e la fine della loro inamovibilità; e vogliamo parlare del nuovo meccanismo dei Patti territoriali con Regioni e Comuni che, immaginate cosa ha significato questo soprattutto nel mezzogiorno, prevedevano lo stretto controllo dell’Autorità anticorruzione, la cabina di regia centrale che bypassasse le resistenze burocratiche ed i poteri sostitutivi dello Stato in caso di incapacità manifesta degli enti territoriali?
Oppure provate ad immaginare la paura dei membri della Corte Costituzionale se questo riformismo radicale arrivava pure a toccare quel meccanismo che porta a cambiare in continuazione il loro Presidente non per una questione procedurale ma solo perché un Presidente dell’Alta Corte va in pensione con un appannaggio più alto.
E tra queste forze avverse che cita Zingaretti ci sono forse anche quelle che hanno portato alcuni Ufficiali dei Carabinieri a falsificare delle prove pur di coinvolgere in qualche modo in una inchiesta scottante l’allora premier?
E ci vogliamo mettere anche quel vasto tessuto di complicità che avevano trasformato le Banche popolari ad essere organismi malati dentro un sistema sostanzialmente sano, tessuto di complicità che è stato smantellato grazie alla riforma delle Popolari, riforma che non era riuscita neanche a Ciampi, bloccato 17 anni fa dai convergenti interessi di destra e di sinistra?
O vogliamo parlare del sistema del caporalato nel Mezzogiorno finalmente colpito da una legge che lo stesso Renzi ha preteso, come racconta Teresa Bellanova, dopo la morte nei campi per supersfruttamento, di una bracciante pugliese? Un sistema di sfruttamento che però portava preferenze e consensi elettorali anche a sinistra (ed è forse questo il motivo per cui sul fenomeno si sono fatti tanti convegni ma mai si era prodotta una legislazione che mirasse a stroncarlo).
Sono soli alcuni esempi. Illuminanti però e di cui Zingaretti non tiene nella sua analisi assolutamente conto.
Per il resto molte cose sacrosante, la globalizzazione, il ruolo dell’Europa, il rinnovamento del Partito, il ruolo delle nuove generazioni, tante parole condivisibili.
Ma anche tanta poesia, mi si permetta di dirlo, a me che sono ormai un vecchio rompicoglioni con una certa esperienza sulle spalle e con il difetto di avere una memoria di ferro sul nostro passato; e mi si permetta di dire che tante di queste parole impegnative le ho ascoltate o lette più e più volte nell’arco temporale del mio ormai quarantennale impegno politico.
Serve la poesia, la prosa, i valori, le lacrime e gli entusiasmi ma serve anche capacità di decisione rapida e veloce e rimango sempre più convinto che se la politica viaggia con la sua tempistica lenta delle eterne discussioni sarà fagocitata, come finora è accaduto (solo Matteo Renzi ha provato ad invertire questa lentezza), da quei poteri finanziari che oggi dominano il mondo globale e che non aspettano che si riunisca il circolo del PD di vattelappesca per delocalizzare con un click i propri investimenti.
E chiudo con le parole largamente condivisibili di Francesco Cundari che scrive:
“L’esito del voto sancisce oggi l’irrilevanza di tutto ciò che in questi anni si è mosso alla sinistra del Pd, ma anche di tutta la retorica e l’aritmetica del centrosinistra e delle coalizioni (dei collegi e dei candidati, dello spirito unitario e dell’unità spirituale) infine accettate dallo stesso Renzi.
I risultati dicono che il mini-centrosinistra formato dal Pd con la lista Bonino-Tabacci, con il mini-asinello di Santagata e il mini-centro di Lorenzin è di fatto una caricatura della coalizione bersaniana con Sel e Centro democratico, che era già, a sua volta, una riedizione miniaturizzata e anacronistica del centrosinistra di Prodi.
Se la grande lezione che il Pd trae dalla sconfitta è di ricominciare per la quarta o la quarantesima volta dall’ennesimo giro di assemblee e comitati centrali unitari per dar vita alla centesima caricatura di coalizione, svuotando definitivamente di ogni senso e funzione il Pd e la sua leadership (chiunque ne occupi il posto), secondo me, dal 18 si va dritti all’8 per cento. Se invece i suoi dirigenti sapranno discutere seriamente dei loro successi e dei loro fallimenti, la stessa storia raccontata fin qui dimostra che non c’è motivo di abbattersi, e che la riscossa potrebbe essere dietro l’angolo. A condizione di non ostinarsi a ripetere sempre gli stessi errori. Detto tutto questo, dopo una così pesante sconfitta, è giusto che chi ha guidato l’esercito si assuma la responsabilità dell’accaduto, accettando pure che chi proponeva altre strategie salga sul banco della pubblica accusa e faccia sapere al mondo che lui lo aveva detto prima. È un diritto che spetta a tutti, meno a chi, per dimostrare quanto avesse ragione, nel bel mezzo della guerra ha preso il fucile per unirsi agli eserciti avversari. Ed è riuscito a perdere lo stesso.”
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Enzo Puro
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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