La damnatio memoriae di Matteo Renzi. Il tentativo è quello di cancellarlo dalla nostra memoria patria.

Tornando dalla Leopolda proviamo a spiegare perché malgrado le tante cose fatte il PD ha perso il 4 marzo. Non ce la caviamo con la cancellazione di Renzi dalle foto ufficiali, né con una ingiusta damnatio memoriae. Il peso nella sconfitta della triplice crisi, economica globale, del sogno europeo, degli stati nazionali. Una lunga deriva, altro che Renzi o il padre della Boschi. Altro che giglio magico. Una sinistra che divora i suoi leader. Il ruolo nefasto della sinistra interna, le campagne virali, il circo mediatico giudiziario. Al Congresso bisognerà andare a fondo nell’analisi. E riconoscere i meriti storici di quel PD.

Letto 14633
La damnatio memoriae di Matteo Renzi. Il tentativo è quello di cancellarlo dalla nostra memoria patria.

Nei regimi sovietici e cinesi quando si voleva cancellare completamente anche il ricordo di un dissidente o di un avversario politico usavano persino eliminarlo dalle fotografie in cui appariva quando era ancora potente.

In democrazia è difficile però cancellare Matteo Renzi dalle foto ufficiali (figuriamoci poi nell’era dei social e dei selfies).

Ma siccome ancora lo temono (è troppo giovane e sta dimostrando una resistenza enorme come il grandissimo successo di partecipazione della Leopolda dimostra) continua l’azione di demolizione della sua immagine e della sua azione di governo. E lo fanno provando ad applicare una pena contenuta nel Diritto romano, la damnatio memoriae, pena che prevedeva la cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una persona, come se essa non fosse mai esistita.

Ma andiamo avanti con ordine.

Inutilmente in tanti proviamo a svolgere sugli anni che vanno dal 2014 al 2018 un ragionamento razionale, appena si prova ad elencare le cose fatte in quegli anni scatta immediata la domanda “ma se avete fatto tutte queste cose perché avete perso?”.

La domanda non è peregrina. E ad essa va data una risposta approfondita perché, come è stato scritto, “ogni sconfitta è una lezione per chi fa politica”.

Provo a rispondere a questa domanda senza lisciare però il pelo a quelli che prendono la questione dalla parte più facile e più banale che sintetizzo con una battuta che circola come ritornello ironico sui social: “ha stato renzie!!”.

Io invece penso che per comprendere questa lezione bisogna andare certamente oltre il nostro “naso autoreferenziale tutto proiettato dentro una battaglia di Partito” (il virgolettato è del professore di storia Alberto Bernardi che ha scritto su questi temi un lungo e brillante articolo che io in parte utilizzerò per illustrare i miei pensieri).

La Politica si svolge e si sviluppa dentro lunghi processi storici (Braudel chiamava questi processi le lunghe derive della Storia) e per capire la sconfitta (che è globale e non si limita soltanto al nostro paese) bisogna approfondire questi processi storici e non ridurre la spiegazione, dice Bernardi, ad una “damnatio memoriae di Renzi” con l’obiettivo di ricostruire (rigenerare) un campo politico senza però riuscire a capire da dove si parte, cosa si deve rigenerare, dove bisogna tornare “al Prodi dell’Ulivo? al D’Alema antiulivista e anti Pd? al Prodi dell’Unione, al Bersani di “Italia bene comune” o a Leu che si astiene sul Def di Salvini e Di Maio? al nazionalismo antieuropeista alla Melenchon, che trapela in molte prese di posizione a sinistra?”.

Fu nel 2014 che in tutta Europa arrivò a compimento quella lunga deriva che ha portato poi nel triennio successivo al governo gialloverde in Italia, una deriva che in quell’anno si concretizzò nel successo clamoroso della Le Pen in Francia, di Farage in Gran Bretagna e del Partito popolare in Danimarca. Quell’anno solo argine alla crisi del socialismo europeo fu quel 40% del PD che consentì di riequilibrare le altre sconfitte nazionali.

Perché si è giunti a questo e perché poi è crollato anche in Italia l’argine del Partito democratico? Troppo facile e autoconsolatorio parlare solo degli errori di Matteo Renzi.

Alberto Bernardi, in un suo mirabile articolo su Libertàeguale, se lo spiega parlando “dell’intreccio perverso tra due debolezze”.

E si riferisce da un lato all’indebolimento degli Stati nazionali bypassati dalla globalizzazione neo liberista e dall’altro dalla crisi dell’appeal del sogno europeo con una UE “che non riusciva a mettere in campo politiche macroecomiche e finanziarie all’altezza della crisi” indebolita com’era “dalle sue divisioni strategiche, dalle miopie delle sue élites politiche dominanti, dalla effettiva durezza della crisi e dalle migrazioni di massa”.

Ed è questo che ha fatto fare un salto elettorale consistente alle forze sovraniste e populiste, perché quella doppia debolezza (degli Stati nazionali e della UE) “ha fatto saltare i rapporti i tra eguaglianza e libertà, tra profitto e benessere, su cui si erano rette per mezzo secolo le società democratiche occidentali: ha rotto in sintesi in Occidente, quel rapporto tra sviluppo economico e emancipazione sociale e civile, che ha coinvolto pienamente il lavoro e ha fondato i sistemi politici nelle democrazie di massa”.

L’Europa cioè non ha saputo dare vita, di fronte alle nuove dinamiche della globalizzazione, ad uno sviluppo all’altezza della sua tavola dei valori storici, quei valori storici fino ad allora non solo declamati ma praticati e che avevano fatto parlare ad uno studioso americano come Rifkin, agli inizi degli anni 90, di una sostituzione del sogno americano basato sul mito della frontiera con un nuovo sogno europeo basato sui valori della solidarietà della cooperazione e della fratellanza.

Ed invece è accaduto, al volger del millennio, che la Politica europea non ha saputo costruire quella che Bernardi chiama “una mano visibile sovranazionale” per salvaguardare in modo nuovo quel “compromesso sociale tra i produttori” che aveva consentito una forte stabilità politica nel secondo dopoguerra ed una epoca di sviluppo e pace, quel compromesso che “era già stato messo fortemente in discussione dalle forze di mercato che già dagli anni novanta erano penetrate fin dentro i meccanismi di funzionamento del welfare, integrandoli al processo di estrazione del valore”.

Questa incapacità delle élites dominanti europee unita all’indebolimento degli Stati nazionali (fenomeno studiato dai sociologi a partire dai primi anni 90 ma su cui la vecchia sinistra italiana ha riflettuto pochissimo, ignorando il fenomeno) ha messo in stand by il sogno europeo e questa crisi congiunta delle Istituzioni Ue e degli Stati nazionali sta mettendo in crisi la stessa democrazia.

Il sovranismo ed il populismo si infilano dentro questa doppia crisi e già nel 2014 emergono come alternativa alle forze che stanno guidando la UE prospettando “il ritorno alla sovranità statale come ancora di salvezza per comunità nazionali sbandate e sfiduciate che non si accontentano più di qualche buon risultato economico – anzi sembra che nemmeno se ne accorgano – ma che vogliono garanzie protettive per il loro futuro”.

E per tornare a noi ed ai motivi veri della pesante sconfitta del 4 marzo 2018 bisogna dire che, scrive ancora Bernardi, “la proposta del progressismo europeista incarnata da Renzi e dal Pd non ha retto l’urto del sovranismo populista dei 5S e della Lega, come il partito democratico statunitense non ha retto l’offensiva di Trump o come gli europeisti britannici sono stati sconfitti dai fautori della brexit, come era già accaduto in Danimarca nel 2015 con la caduta del governo socialista guidato da Helle Thorning-Schmidt”.

È questo, e non altro, che spiega il paradosso da cui parte quella domanda che in tanti sprezzantemente ci rivolgono “ma se avete fatto tutte queste cose perché avete perso?”

I risultati conseguiti e di cui, come Democratici italiani andiamo orgogliosi, non hanno fatto in tempo a raggiungere “quella massa critica in grado di rendere percepibile un’inversione netta di tendenza rispetto al passato” e questo ha consentito ai fautori della società chiusa contro i fautori della società aperta di vincere in contropiede “puntando sulle paure di classi medie impoverite dalla crisi del 2008”.

Si è perso perché non si erano ancora rimarginate quelle ferite sociali, di cui Renzi non ha nessuna responsabilità, inferte dalla crisi globale del 2008 con l'aggravante delle azioni dei governi Berlusconi/Bossi/Salvini fino al 2011 e Monti nel 2011/2012. L’incapacità congiunta della UE e dello Stato nazionale è stato un ostacolo nell’affrontare quella forte crisi di fiducia e quella paura frutto del baratro che in quegli anni le nostre famiglie hanno visto spalancarsi davanti, con molte che in quel baratro ci sono cadute.

La politica riformista dei 1000 giorni ha affrontato di petto quella crisi, ha prima frenato e poi invertito la direzione di marcia verso il baratro, ma i benefici di questa politica non hanno fatto in tempo a consolidarsi nel vissuto quotidiano delle famiglie. È rimasta la paura e la sfiducia su cui hanno fatto presa, come dicevamo, con una campagna perfetta i populismi.

Si poteva fare di più? Forse, ma io so che nessun governo negli ultimi 30 anni ha fatto così tanto come il governo Renzi.

E so anche che se fare di più significava scassare i conti dello Stato tornando allora al clima in cui i più autorevoli media chiedevano a Napolitano ed alla politica di “fare presto!!”.

La valutazione del quinquennio tra il 2013 ed il 2017 non può estraniarsi, soprattutto per l’Italia, dalla necessità di superare quelle nefaste conseguenze (reali e psicologiche) di quella crisi dei debiti sovrani che tre anni prima aveva addirittura “minacciato le fondamenta della costruzione europea”.

E Alberto Bernardi ci ricorda che “con la rielezione di Obama, gli interventi massicci della Fed e l’avvio della politica di Draghi legata al QE, nella seconda metà del 2012 cominciano a operare gli strumenti tecnici e politici per rilanciare la costruzione europea e la ripresa; ma i danni del triennio di austerity precedente sono stati terribili: l’esautoramento dei governi greco e italiano, gli interventi della troika in diversi stati europei, una sostanziale stagnazione economica che scava un fossato tra gli Stati Uniti e la UE, un aumento della disoccupazione e una caduta verticale della fiducia dei consumatori alimentati dalla mitologia conservatrice della pareggio di bilancio hanno aperto una duplice frattura: tra l’Eu e i suoi cittadini; tra Usa e Eu per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale”.

Altro che Renzi e il padre della Boschi, altro che l’antipatia e la divisività di Matteo Renzi, altro che giglio magico, le analisi devono andare più a fondo e non ci può essere nessuna analisi della sconfitta che non tenga conto di queste lunghe derive storiche che ci siamo soffermati a descrivere. Non farlo significa, lo dicevamo all’inizio, “fare uso soltanto del proprio naso autoreferenziale tutto proiettato dentro una battaglia di Partito”.

Dentro questi processi lunghi vanno innestati poi (come elemento moltiplicatore di qualcosa però indipendente dalle vicende nazionali) i processi politici nazionali che hanno visto una alleanza tra tutte le forze (di destra e di sinistra) che, consapevolmente o meno, avevano l’obiettivo di fermare quel giovane fiorentino che si era messo in testa di cambiare davvero il nostro paese.

E per fare questo sono stati usati tutti i mezzi. Contro Renzi ed il suo nuovo gruppo dirigente sono state addirittura costruite prove false (vedi caso Consip), sono state amplificate indagini che poi si sarebbero concluse con archiviazioni o assoluzioni degli esponenti del PD coinvolti (caso Tempa rossa, caso Graziano, caso Sindaco di Ischia, processi a De Luca), la potenza del web è stata usata in maniera scientifica rendendo virali (entrando così nella testa di milioni di persone come fatti veri) eclatanti Fake news come quelle riguardanti la cugina inesistente di Renzi, un fratello assunto in un ministero (l’unico fratello di Renzi fa l’oncologo tra l’altro all’estero), la storia infame dei sacchetti di plastica dei supermercati, quella della Lamborghini e chi più ne ha più ne metta (l’ultima riguarda il fratello del marito della sorella, una vicenda che l’Unicef ha dovuto smentire categoricamente con un comunicato molto chiaro).

Bugie su bugie poi sono state dette (e continuano ad essere dette) sulle Banche come racconto nel mio dettagliatissimo articolo che potete leggere QUI: È ora di restituire l’onore a Maria Elena Boschi.

Dentro lo scorrere di quella lunga deriva che abbiamo provato ad illustrare in precedenza e che ha portato in tutta Europa al trionfo di diversi populismi antieuropei e sovranisti (moltissimi con aspetti autoritari) la costruzione di questi frame contro il PD e contro Renzi hanno efficacemente svolto il ruolo di indebolire quell’argine che nel 2014 era stato il Partito Democratico, unico, all’epoca, Partito del socialismo europeo a vincere le elezioni.

Certo ci sono anche degli errori. Ma non sono quegli errori che hanno cambiato il corso di una vicenda che ha radici più profonde nella crisi del 2008 che ha sconvolto la vita di tante famiglie del ceto medio, nella crisi del modello europeo che alle paure che la crisi globale aveva scatenato non ha saputo rispondere, nella crisi dello Stato nazionale ormai impossibilitato ad esercitare quella sovranità per cui centinaia di anni prima era stato costruito.

Semmai l’errore più grande è stato quello di aver sottovalutato la potenza di quelle lunghe derive storiche e conseguentemente non aver accentuato il rinnovamento integrale delle classi dirigenti (se non vi piace la parola rottamazione chiamatela pure così) soprattutto al Sud (ma non solo) e non aver, soprattutto dopo la sconfitta referendaria, accentuato il forte profilo radicalmente riformista.

Renzi si è fatto probabilmente condizionare da quelle divergenze nel proprio Partito “talmente profonde – come scrive il professor Bernardi - che hanno avuto l’effetto non solo di rallentare l’azione del governo, ma soprattutto di impedire che quest’azione diventasse la trama politica dell’iniziativa del partito”.

In quel periodo dentro il PD non c’è stata soltanto una legittima discussione politica su indirizzi diversi, quel dibattito interno si è trasformato in “una costante resa dei conti tra gruppi dirigenti organizzati in correnti, dove minoranze ideologiche, poco interessate a mettere alla prova l’orizzonte ideale del riformismo in un progetto governativo concreto, hanno ostacolato la maggioranza interessata a farlo”.

Lo ribadisco in quella vicenda non c’entra nulla il carattere di Renzi, il suo essere divisivo, non c’entra nulla il padre della Boschi e il giglio magico. Esse sono state “rappresentazioni utili all’interno di narrazioni politiche che hanno però altre finalità: impedire al Pd di diventare quella forza politica riformista, liberalsocialista, moderna che stava nell’orizzonte ideale e programmatico lanciato al Lingotto nel 2008”.

La novità e la forza del progetto renziano sono state pian piano erose da un progetto radicalmente alternativo, quel progetto alternativo che nel 2010 aveva già fatto secco Veltroni e che tendeva e tende a radicare il Partito ad una presunta e non effettiva (ha ragione su questo Bernardi) tradizione socialdemocratica.

Ed oggi, applicando la pena della “damnatio memoriae” nei confronti di Matteo Renzi, ci si chiede un abiura sul recente passato mentre alla base del confronto congressuale dovrebbe essere lo scioglimento del quesito se i governi Renzi-Gentiloni abbiano giocato bene o male la partita difficilissima che consisteva nel recuperare il massimo di risorse disponibili, allentando la maglia delle rigide compatibilità, per attivare politiche di redistribuzione della ricchezza”.

E come non essere d’accordo con Umberto Minopoli che in un suo articolo ha scritto che “si può’ pensare ciò che si vuole del merito delle riforme del job act, della scuola e del resto. Non si può negare che si trattò del più vasto, concentrato e concreto programma di riforme mai tentato nella storia italiana. È ovvio che la conservazione, tara perenne della storia italiana, insorgesse. Non è ovvio che insorgesse la sinistra, interna ed esterna al Pd. E cominciasse, all’indomani delle riforme, del ritrovato prestigio internazionale dell’Italia, della ritrovata forza e prestigio del Pd nel concerto europeo, della trovata leadership tra i progressisti in Europa e nel mondo, a descrivere Renzi come il nemico e, addirittura, un pericolo per la sinistra. Irreale, incredibile, suicida. Frutto di una malattia ideologica della sinistra italiana. Che divora i suoi leader quanto più si avvicinano al traguardo del governo e del successo del governo e delle riforme. Infine quel giovane Premier osò l’impensabile per i riti italiani: la riforma dello Stato, del governo e del sistema elettorale: una petizione che, da 10 anni e più, era nei programmi del Pd, una esigenza dichiarata e urgente della politica ma mai realizzata, una insistenza preoccupata del Capo dello Stato.

Alla prova della riforma più vasta e del successo possibile del cambiamento concreto rincorso per decenni, una parte della sinistra operò il voltafaccia. Oscuro, incomprensibile, suicida. Un mondo di vecchia e antica sinistra, il Pd delle origini, intellettuali, guru, professori, giornali e giornalisti della sinistra, operarono il “tradimento dei chierici”: contro le riforme si allearono con i conservatori, si rimangiarono 20 anni e più di battaglie riformiste e contribuirono alla disfatta della riforma politica e all’ennesima sconfitta del riformismo.

È il filo rosso della storia italiana: la mancata modernizzazione del paese, ostacolata sempre, alla fine, dalla doppia tenaglia del conservatorismo della destra poco liberale e della sinistra ideologica.

Il disegno era un altro dopo la sconfitta del referendum: rimuovere Renzi, tornare ad una legge elettorale proporzionale, distruggere il sogno maggioritario. Si è capito il perché. Una parte del paese preferisce la repubblica corporativa dei populisti, quella dell’eterna giostra assistenziale che ci ha fatto il paese più indebitato del mondo: eccitato e intossicato da finte guerre ideologiche sulla stampa o in Tv ma fermo, statico, inossidabile e allergico a innovazione, dinamismo e cambiamento.

E oggi? Renzi è fuori. Anche un elefante avrebbe piegato le gambe alle campagne che ha subito. Ma per molti la guerra non è finita. Hanno vinto i populisti. Li hanno portati per mano al governo. I responsabili dello scempio - i guru della sinistra eterna (politici, giornalisti, intellettuali, magistrati, opinionisti, comunicatori, imprenditori “illuminati”) - si dovrebbero guardare sbigottiti. E rammaricarsi in coscienza: “cosa abbiamo fatto!” E invece a otto mesi dalla sconfitta elettorale e in pieno scorrazzare dei populisti al governo, il tema dei candidati alla guida del Pd è “allontanare Renzi”.

Ancora? Non è umano (e nemmeno plausibile e intelligente). Il congresso è ancora “processo a Renzi”: un epifenomeno freudiano, un evento psicoanalitico. E una reminiscenza di dramma dispotico e staliniano: le responsabilità (Renzi segretario) si trasformano in “colpe”. Da pagare con la cancellazione. Aberrante. Nessun partito normale fa così’.”.

E chiudo con le parole del professor Bernardi che più di tutte racchiudono il senso delle cose che mi sono sforzato di dimostrare soprattutto quando afferma che non c’è nessuna ragione oggi di chiedere scusa agli italiani: “se lo si propone come indirizzo politico, come “manifesto” di una rifondazione del Pd, al di là delle prese di posizione estemporanee, significa non solo dare ragione ai nostri avversari, ma soprattutto ritenere che sia possibile attivare politiche di redistribuzione della ricchezza, che costituiscono l’essenza di ogni progetto riformista, al di fuori di quel “sentiero stretto” che è stato perseguito nel quinquennio precedente.

Ma fuori di esso si entra nella terra di nessuno nella quale il sostegno ai ceti deboli non si fa carico dei problemi dello sviluppo e della formazione del capitale sociale indispensabili per perseguire l’obbiettivo dell’eguaglianza.

Quando si dice che Il Pd ha tirato fuori il paese dalla crisi, significa riconoscergli un merito storico, non solo politico, che dovrebbe inorgoglire l’intero partito. Così non è però, perché una parte minoritaria del partito non ha partecipato a questa battaglia, non ha contribuito a questo risultato, anzi lo ha ostacolato e disconosciuto perché asserragliata in una visione del riformismo divergente da quella che ha animato l’azione dei governi a guida Pd. È un riformismo fondato sul trinomio protezione, statalismo, debito pubblico che è fortemente confliggente con quello del “renzismo” fondato su opportunità, globalismo inclusivo, merito e mercato.

Separare redistribuzione da produzione di ricchezza porta a Maduro, non a Keynes: altro che critica al capitalismo !!!”.

Letto 14633

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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