Non è scontato che in prospettiva la scissione indebolisca il PD

I cliché di editorialisti e commentatori vedono un PD indebolito, scioccato dalla scissione, che ha perso la sua caratteristica originaria. Aiutato dalle parole di Andrea Catena, Umberto Minopoli e Teresa Bellanova cerco si spiegare perché questi cliché non corrispondano alla realtà

Letto 8082
Non è scontato che in prospettiva la scissione indebolisca il PD

Editorialisti e commentatori riempiono le pagine dei giornali parlando delle vicende PD usando cliché prefabbricati a cui attaccare intere paginate di nullità.

Lo capisco. Le copie si vendono così, non provando a mettere in campo punti di vista diversi, più approfonditi e seri.

Ad esempio è il solo Francesco Cundari a sottolineare un aspetto paradossale della scissione che nessuno prende in considerazione. Ecco cosa scrive lucidamente Cundari:

“Nel corso della storia abbiamo visto molte volte opposizioni chiamare il popolo alla rivolta contro un regime che negava libere elezioni, minoranze minacciare scissioni di fronte a maggioranze che rifiutavano di lasciare esprimere gli iscritti, gruppi dirigenti raccogliersi per costringere il leader a sottoporsi a un voto. Mai, a nostra memoria, si era vista un’opposizione che trama per lasciare gli oppressori al governo, che complotta perché l’uomo solo rimanga al comando, che combatte perché tanto al voto degli elettori quanto a quello degli iscritti si arrivi non il più presto, ma il più tardi possibile. È un caso pressoché unico nella storia della democrazia che una minoranza voglia al tempo stesso restare minoranza e imporre alla maggioranza le sue posizioni”.

Il mantra, l’assunto indimostrato ma dato per certo dai Damilano, dai Giannini e da molti altri è che il PD sarebbe finito.

E sarebbe finito solo perché la piccola componente dalemiana ha deciso di andarsene? Come si domanda il giovane compagno Andrea Catena, un quarantenne abruzzese che spesso sui social scrive post molto azzeccati come quello che riporto in questo articolo e le cui argomentazioni faccio mie.

Condivido l’affermazione che questa visione apocalittica sarà smentita dai fatti dalla partecipazione di centinaia e centinaia di migliaia di persone al Congresso. E dai milioni che parteciperanno all’atto finale del Congresso e cioè le primarie. Chi vivrà vedrà.

Nel suo articolo Andrea ci spiega perché la matrice della scissione è tutta dalemiana. Bersani prima di assurgere a leader nazionale era il referente in Emilia-Romagna dei dalemiani e Rossi ne era uno dei più importanti esponenti toscani (il suo ghostwriter è l’anziano giornalista Caldarola, amico e ghostwriter a suo tempo di massimino).

La matrice culturale – scrive Andrea è quindi molto chiara”.

Una matrice culturale che a lungo è stata egemone a sinistra e che oggi invece è largamente minoritaria.

Era ed è una componente “che non ha mai sposato fino in fondo l’idea di un partito che si ponesse oltre le culture del novecento, di un partito a vocazione maggioritaria, fondamentalmente interclassista o catch all party (partito pigliatutto) per dirla con termini moderni”.

Non ci hanno mai creduto e l’eterno conflitto ventennale dentro i DS tra D’Alema e Veltroni aveva proprio questo come vera linea di conflitto.

Ed è per questo che ha ragione Andrea quando afferma che la sua fuoriuscita dal PD, contrariamente a quello che scrivono editorialisti e commentatori non fa venir meno il progetto del PD anzi potenzialmente, in prospettiva lo rafforza anche se nell’immediato indebolisce e determina un favore alle destre ed ai cinque stelle”.

E questo non solo perché la sinistra riformista che con più convinzione ha aderito al progetto del PD (e i discorsi di Veltroni e Fassino lo dimostrano) resterà ma anche perché a restare, dice sempre Andrea, sarà anche “tutta o quasi la generazione dell’Ulivo e di chi come me ha iniziato la sua militanza direttamente nel socialismo europeo, la generazione dei Zingaretti – primo presidente italiano dello Iusy (International Union of Socialist Youth, Unione Internazionale dei Giovani Socialisti) – Mogherini, Orlando, Martina eccetera”.

E’ certamente un momento difficile e nessuno lo vuole negare. Sarebbe stato sicuramente meglio un altro epilogo ma anche io penso che il progetto del Partito Democratico è pienamente in campo.

Mentre non è in campo e se c’è non si intravede un “progetto alternativo dei dalemiani che appare confuso, senza strategia, senza alleanze, senza riferimenti in campo europeo.

Destinati a confluire lafontainiamente in una sinistra nostalgica e senza prospettiva”.

Insieme al mantra della fine del PD un altro mantra molto di moda è quello che ritiene necessario dentro il PD salvaguardare, proteggere e rappresentare gli ex DS.

Lo dice bene in un suo post sui social Umberto Minopoli, ex membro della segreteria FGCI ai tempi di D’Alema, napoletano ed ex migliorista (e tante altre cose che non sto qui a dire).

In questo post, nel quale invita giustamente a non farsi imporre l’agenda dagli scissionisti, Minopoli sostiene che è una fesseria e che è anche umiliante per gli ex DS ritenere che nel PD ci sia un problema per chi viene da quella storia e che “questa idea da ghetto degli ex Ds, questa visione ridicola e da WWF di Cuperlo che ci sia una sinistra interna umiliata da Renzi, ridotta nel PD a riserva indiana da salvaguardare e da mettere in protezione dal moderatismo di Renzi, è una castroneria”.

Ed è vero, sarebbe ora di finirla “con questa nenia cuperliana che nel PD ci sia una sinistra da soccorrere e proteggere come un animale in estinzione, nel PD la sinistra che oggi vale la pena di valorizzare è il centrosinistra. E Renzi l’unico che ne può essere la guida”.

Bisognerebbe innanzitutto capire che “con tutte le critiche che gli si possono fare, Renzi è un asset elettorale del PD. Non la sua palla al piede. Ed è un asset di tutto il PD non della parte di esso che non proviene dai DS”.

E sarebbe ora di finirla con la litania che il PD avrebbe un problema con l’elettorato di sinistra quando è chiaro dai sondaggi e dai flussi elettorali del referendum che l’85% degli elettori di Bersani (quelli della mezza vittoria o mezza sconfitta) restano fedeli al PD di Renzi.

E sono d’accordo con Minopoli quando dice che per evitare quello che lui chiama la piccola Weimar italiana (la consegna cioè del nostro paese a Grillo ed al populismo) bisogna piantarla con le carabattole ed i melodrammi di una sinistra sempiterna da evocare e salvaguardare.

E che non si tratta solo di recuperare voti e consensi a sinistra ma soprattutto di prendere voti da tutte le direzioni per battere il fasciogrillismo o il fascioleghismo.

Minopoli affronta poi anche il tema sostenuto più sopra da Andrea Catena, quello del possibile indebolimento del PD successivo alla scissione. E si chiede: Chi dice che un Partito più coeso meno impacciato su un programma riformista, meno condizionato dalle mediazioni interne e dalla paralisi decisionale dovrebbe risultare meno attraente per gli elettori?”

Chiudo questa rassegna di opinioni citando invece alcuni passaggi di una intervista di Teresa Bellanova, la più applaudita alla Assemblea del PD dell’altro giorno. Teresa è una ex bracciante, capolega CGIL a 15 anni in Puglia, poi dirigente sindacale combattiva ed appassionata, oggi Parlamentare e viceministro di Renzi e di Gentiloni.

Teresa risponde al solito cliché di un PD senza più la costola sinistra e dice:

La mia storia come quella di altri parla chiaro. Non ha bisogno di patenti né di dispensarne. Parlano chiaro le tante cose fatte nel governo e nel Parlamento.

Se la legge sul caporalato non parla al nostro popolo, a chi parla?

La riforma del terzo settore è di destra o di sinistra?

Il contrasto alle dimissioni in bianco, le Unioni civili, le garanzie per chi lavora nelle imprese con meno di 15 dipendenti, tutto ciò non tutela forse segmenti deboli ed impauriti?

Impegnarsi giorno e notte per salvare l’Ilva, costruendo per Taranto una prospettiva di tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro. Rimanere seduti ai tavoli di crisi finché la discussione non produce uno spiraglio tangibile per il lavoro ed i lavoratori.

Non sto dicendo che non ci sono stati errori, dico che il lavoro è stato enorme e che le divisioni al nostro interno non sempre hanno aiutato”.

E nella intervista chiude con un messaggio positivo che io mi sento di condividere.

“Una comunità non può vivere se, anche andando in piazza a sostenere i nostri valori, non sai se sarai attaccato di più dai tuoi avversari o dai tuoi stessi compagni di partito. Il Pd è oggi nel Paese l’unica forza politica vera. Esprimiamo, a tutti i livelli, classi dirigenti giovani e capaci. In questi anni abbiamo cercato non solo di dare una risposta ai problemi del paese ma anche di costruire una prospettiva a lungo termine di crescita, di sviluppo”.

Letto 8082

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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