L’odissea delle riforme
In questo articolo Vincenzo Pino racconta di come la cultura politica della sinistra italiana, egemonizzata dal PCI, fosse lontana dalla cultura riformista che portò in Italia per merito di socialisti e liberali grandi riforme sociali come lo Statuto dei lavoratori e grandi riforme civili come il divorzio e l’aborto. Il PCI si astenne dal voto sullo Statuto dei lavoratori e fu freddo verso divorzio e aborto. Sta qui la ragione della sorda guerra che certa sinistra ha fatto a Matteo Renzi.
“Riformista” mi gridavano a mo di offesa i gruppettari negli anni 70, quando dirigevo la sezione universitaria del Pci a Catania.
Io non riuscivo allora a riconnettere la mia vocazione rivoluzionaria con la non meglio definita “democrazia progressiva” di cui all’impianto teorico di derivazione togliattiana e che si sarebbe inverata con ancora non meglio definite “riforme di struttura”. Ma è uno dei miei tanti nodi teorici che erano rimasti irrisolti fino a qualche anno fa.
Come dire che il Pci di allora al di là delle gloriose ed importanti lotte che hanno emancipato la condizione economica delle classi sfruttate e subalterne non aveva un orizzonte teorico che andasse al di là di quella collocazione importante.
Si poteva largamente definire un partito simil classista e “parasindacale”.
Eppure quello era un periodo di grandi trasformazioni culturali anche sul piano dei diritti civili e della tutela della condizione dei lavoratori dipendenti, ma il Pci era fuori da questo dibattito con punte di indifferenza e di incomprensione.
Vale la pena invece riprendere quelle che furono le grandi riforme di quel periodo, realizzate essenzialmente dalla iniziativa socialista e liberale.
In primo luogo nel 1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, voluto dalla iniziativa tenace ed appassionata dell’allora ministro Brodolini e realizzata successivamente da Gino Giugni, entrambi socialisti.
Vale la pena ricordare l’imbarazzo del Pci che si astenne su quel provvedimento perché non venivano tutelati i lavoratori sotto i 15 dipendenti. Ecco di fronte ad un provvedimento epocale, una vera riforma di struttura e civile si affermò un riformismo che vedeva alla opposizione la Cgil, in quanto a loro dire avrebbe imbrigliato “la spontaneità del movimento operaio” irreggimentandolo nei limiti della rappresentanza sindacale (articolo 19 dello stesso) quando invece loro puntavano ad un sistema di delegati frutto appunto dello spontaneismo più totale modello soviet.
Ed in quello stesso anno vi fu la grande rivoluzione del costume familiare con l’approvazione del divorzio ed anche qui fu il binomio liberal socialista, la legge Gaslini Fortuna, a realizzare quell’approdo con ancora limitata attenzione del Pci di allora, il cui atteggiamento all’inizio fu definito tiepido sui giornali.
Certo quando poi il provvedimento fu messo in discussione, dopo quattro anni con il referendum del 1974, la mobilitazione fu poderosa ed importante, connessa alla realizzazione dell’obiettivo ma anche in funzione della lotta frontale da fare alla Dc cosa che i suoi militanti capivano meglio.
E così come con l’aborto, realizzato attraverso le iniziative pionieristiche della Bonino e di quella cultura radicale che affermava il valore della individualità della persona e della donna in particolare a fronte di una cultura comunista impregnata solo dalla cultura dei grandi movimenti di massa.
Richiamo questa storia per dire che nella storia del Pci e della stessa Dc non si è inverata una cultura di fondo riformistica e della trasformazione della condizione individuale e collettiva dei cittadini se non quella prevalente della tutela economica.
Frutto della mancata rielaborazione teorica del Pci. In Italia non si è mai verificata una Bad Godesberg o di qualcosa che potesse somigliare a tutto questo, neanche dopo il crollo dell’Urss.
Come pure la cultura verde ed ambientalista in anni più recenti è stata fuori dei radar dei due grandi partiti italiani e promossa da avanguardie di pensiero giovanili ed attente.
La iniziativa del Pci fino ai tempi recenti è stata quella dell’intercetto e dell’emendamento.
Insomma tutte le novità di una realtà in profonda trasformazione sono stati recepiti con anni di ritardo e la sinistra comunista è stata dal finire degli anni 70 fattore di stabilizzazione più che di cambiamento.
Alla luce di questa cultura e di questa storia è possibile in parte capire la lotta frontale perpetrata da certa sinistra al governo Renzi.
Dopo aver partecipato a tutte le commissioni parlamentari per la riforma costituzionale con ruoli talora di direzione (Iotti, Violante ad esempio) quando si è arrivati al dunque una larga parte di quello schieramento si è tirata indietro preferendo la stabilizzazione conservatrice alla novità riformistica.
E lo stesso si può dire e sulla’articolo 18 quando D’Alema e Bersani ne pretesero la riforma evidenziando la miopia dei sindacati (eravamo nel 2011), ed avendola ottenuta sotto il manto protettivo del governo Monti ora sparano a palle incatenate contro Renzi che con quel provvedimento del 2012 non c’entra nulla.
E così si può dire del jobs act che estende tutele ai lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti mentre Bersani e Company fino a qualche anno prima avevano decantato il modello della flex security affidandone tutta la realizzazione sotto il governo Monti a Pietro Ichino il teorico di quel modello appunto.
E si potrebbe continuare con gli 80 Euro, definite uno strumento per disintermediare la rappresentanza sindacale, quando questa è invece materia che attiene alla fiscalità generale e non interferisce col ruolo di contrattazione che i sindacati hanno con le controparti.
In definitiva, tutto il portato riformistico di un governo a guida Pd è stato abbattuto dal conservatorismo pseudo rivoluzionario della vecchia nomenclatura cresciuta politicamente nel secolo scorso.
Incapace di comprendere i fenomeni nuovi e di cercare di governarli.
E per citare l’ultimo esempio: Quello sulla crescita grillina del 4 marzo, imputata all’azione dei governi a guida Pd, ed a Renzi in particolare, da parte di questa pretesa sinistra
A questi vorremmo sommessamente ricordare che l’esplosione grillina è avvenuta nelle elezioni del 2013, quando questo movimento diventò il primo per consensi nel nostro paese.
Ma quelli refrattari al riformismo sembrano non essersene accorti in questi sei anni, perché come si sa loro preferiscono fare l’opposizione a qualsiasi ipotesi di rinnovamento graduale e razionale preferendo di gran lunga il richiamo delle piazze protestatarie e sloganistiche, da cui il fascino dei cinque stelle corteggiati come non mai da Bersani, D’Alema e Grasso nella campagna elettorale del 2018. Se poi i grillini sono cresciuti grazie a questi sostegni e loro sono precipitati a cifre da prefisso telefonico, la colpa è stata naturalmente di Renzi.
Occorre ripensare ad un grande partito riformistico nel nostro paese in grado di riconnettersi con la società ed i suoi movimenti per prospettare soluzioni e cambiamenti.
Questo era sembrato a me il Pd di Renzi e mi aveva sciolto positivamente nella pratica quel nodi teorico irrisolto di cui parlavo all’inizio. Ora riformista mi sembra un grande complimento.
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Enzo Pino
Pensionato, commentatore politico per diletto. Collabora con diverse riviste on line. Già responsabile del Centro Studi Ricerche e Fomazione Cgil Sicilia.
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