Perché i “caminetti” hanno bruciato Renzi

Il torto di Renzi è di “non aver chiesto permesso!” Consiste nel non aver concertato con i notabili la possibilità di concorrere alla leadership. Nel non aver accettato di concordare in un caminetto i paletti e le mediazioni con l’apparato. Di aver sfidato i detentori del “marchio”. Non avere accettato le regole non scritte. Aver rotto l’equilibrio di quei caminetti. Aver dimostrato che si poteva praticare la contendibilità delle cariche. Che il partito non era sotto tutela di nessun “mostro sacro”. L’assurdo tutto italiano di avere i comunisti senza comunismo, i rivoluzionari senza rivoluzione, i riformisti a parole senza riforme. Ornello Stortini racconta la vera storia politica a sinistra di questi ultimi anni.

Letto 7802
Perché i “caminetti” hanno bruciato Renzi

Ebbene si! Chapeau! Ce l’hanno fatta! Purtroppo! Ma ci sono riusciti.

Daje e daje se so’ ripresi la “Ditta”.

L’avevano scampata al primo confronto tra Renzi e Bersani. Ma avevano però cominciato a capire, dopo il deludente risultato elettorale, che non avrebbero retto la successiva competizione con Renzi.

Vedete è da lì che inizia l’odio contro il “Fiorentino”.

Eh sì. Perché Il suo più grande torto è stato l’aver peccato di “lesa maestà”.

Ma non era riferito, come le menti normali potevano pensare, agli attacchi alla vecchia nomenclatura o alle varie rottamazioni. O meglio, non solo.

No la “lesa maestà” consisteva nel “non aver chiesto permesso!”

Nel non aver concertato con i notabili la possibilità di concorrere alla leadership.

Nel non aver accettato di concordare in un caminetto i paletti e le mediazioni con l’apparato. Di aver sfidato i detentori del “marchio”.

In un concetto: di aver applicato invece semplicemente la “contendibilità delle cariche”, statutariamente prevista con lo strumento delle Primarie.

Per la prima volta cioè, un ragazzotto, ancorché Sindaco di Firenze, si permetteva di sfidare la “Ditta” senza paracadute e aveva la sfacciataggine pure di poter vincere e far fare una brutta figura ai “Capi carismatici”.

Fallo pure ma ti sarai così guadagnato un “fronte contro” aperto permanentemente. Una guerra aperta e sotterranea che ti taglierà l’erba sotto i piedi: non importa quanto e cosa ci vorrà ma alla fine ti cacceremo come un corpo estraneo, quale sei!

Ma perché tutta questa ostilità? Perché considerare un affronto una leale competizione?

Si potrebbe dire che la ragione era (ed è tuttora) che si sono sempre considerati, o auto considerati, un élite, gli eletti, i depositari delle verità, gli unti.

Ma la domanda successiva è: chi può considerarsi così nel panorama politico? La risposta è una sola, anche se per qualcuno sembrerà incredibile o addirittura ridicola. Non per me che quel mondo conosco bene, perché ne provengo e l’ho frequentato ininterrottamente dal ’73.

Semplicemente perché sono “comunisti”. Anzi, meglio, sono “rimasti” comunisti.

Solo i comunisti hanno questa alta auto considerazione.

Solo loro si sono sempre sentiti e si sentono ancora superiori agli altri. Solo loro sono capaci di provare disprezzo per chi non viene dalla stessa matrice (pensate solo all’odio storico per i partiti socialisti e socialdemocratici considerati traditori del popolo). Solo loro sanno cosa fare e quando farlo. Solo loro hanno la costanza, la pazienza e la pervicacia di produrre, attraverso il fuoco amico, la guerra ad oltranza all’avversario, mi correggo “al nemico”. Solo loro hanno costruito nel tempo una rete di rapporti, frequentazioni, convergenze ovattate con “l’intellighenzia”, collocata nelle varie postazioni che contano (giornali, giornalini e giornaloni, tv, cultura, spettacolo, satira, professoroni, ecc.), da usare come fuoco di sbarramento generalizzato all’indirizzo del nemico. Solo loro, che negli anni hanno coltivato ed alimentato il consociativismo, possono ricorrere a reti di interessi trasformati in vere e proprie corporazioni che hanno sempre avuto in odio le riforme “vere”, quelle che rendono” aperta” la società, l’economia, le istituzioni. Quelle che rompono le incrostazioni, i privilegi, le consorterie che bloccano lo sviluppo di forze più dinamiche e moderne.

Eh sì! L’Italia è uno strano Paese. Viviamo l’assurdo di avere i comunisti senza comunismo, i rivoluzionari senza rivoluzione, i riformisti a parole senza riforme. E non lo dico io. Lo ha detto in molte occasioni il campione dell’autocelebrazione, Bettini, quando ha affermato in più occasioni che Renzi deve andarsene e farsi un suo partito, che il PD ha fallito. In un convegno da lui organizzato si è riparlato di lotta di classe (segnalo che era presente anche Nicola Zingaretti che, secondo il giornalista “prende appunti diligentemente”)

Potrà sembrare una boutade, una mia cattiveria. Un pregiudizio astioso, un malanimo da ex (così spesso sono stato redarguito dal solito ineffabile Bettini), verso gli avversari di Renzi. Una affermazione forse addirittura anacronistica! Poco credibile se non speciosa. Ma, a parte che molti di loro si sono più volte definiti “comunisti democratici”, se ci pensate bene e con un minimo sforzo di oggettività dovreste riconoscere che, se ricostruiamo tutti i passaggi che si sono succeduti dal superamento del PCI (in Pds, DS) in poi, questi sono avvenuti tutti “obtorto collo”.

Non è stato un caso che dal PCI al PD si siano verificate due scissioni (oltre numerosissimi abbandoni individuali strada facendo), che fra quelli rimasti c’è sempre stata una grossa componente facente parte della mozione del “NI”. Che le varie maggioranze che hanno prodotto i passaggi evolutivi avevano comunque in pancia consistenti protagonisti che sprizzavano scetticismo e contrarietà al cambiamento. Che i vari gruppi dirigenti venivano distribuiti sapientemente in tutte e tre le mozioni: nel SI, nel NO e nel NI, cosicché non veniva dispersa l’unità degli apparati. Che non si è mai voluto fare fino in fondo una analisi seria e approfondita che mettesse in discussione il modo in cui eravamo stati comunisti e perché arrivammo buon ultimi a prendere atto della “sconfitta storica del comunismo”. Che questo ha impedito l’abbandono definitivo di quell’anima, di quella cultura, di quella pratica, di quella retorica, di quella “religione” e che ha così gonfiato via via sempre più il fiume di una nostalgia deleteria che ha fatto camminare molti con la testa rivolta all’indietro. Che la parte buona di quel patrimonio poté in parte salvarsi grazie al coraggio di Occhetto che un attimo prima del crollo fece la famosa svolta della Bolognina, al quale, questo coraggio, fu fatto comunque pagare con lo sgambetto al congresso che non lo confermò segretario.

E indovinate un po’ da chi?

Insomma è tempo di dirci che le tappe di avvicinamento al PD avvennero col freno a mano tirato e si volle a tutti i costi rallentarlo facendoci pagare il costo di mettere in piedi coalizioni (Ulivo e Unione) valide per vincere le elezioni ma che poi si dimostrarono non in grado di governare. Che le due forze più significative persero anni a cincischiare sul da farsi pur di non rinunciare alle proprie identità. Molti di quelli (dall’una e dall’altra parte) che invece erano convinti che questa fosse l’unica strada giusta si batterono con tutte le loro forze per superare quelle identità, per fare una sintesi delle diverse culture, ma rimasero inascoltati e a volte insultati. È così che il PD nacque con un ritardo che sarebbe pesato sul suo futuro.

Io penso che ad un certo punto i gruppi dirigenti delle due forze maggiori decisero di farlo più per necessità che per convinzione piena. Ma soprattutto, penso sempre io, perché scattò un patto non scritto, e forse nemmeno detto, ma implicito, in cui non sarebbe mai stata in discussione la clausola del diritto della dignità del primato ai DS, con possibilità di alternanza sì ma previa concertazione tra i maggiorenti.

Affidarono così la fondazione a Walter, allora sulla cresta dell’onda come Sindaco di Roma, e come personalità presentabile e credibile in quanto vittima, nel primo governo Prodi (nel 96 era vice Pres. Cons.) della logica delle coalizioni e del dualismo tra responsabilità di governo e gestione del partito.

L’unica vittoria dei convinti sostenitori del PD fu lo Statuto, o almeno la parte più qualificante e che ha costituito una sorta di “mito fondativo del PD”.

Mi sembra di poter dire che tale mito si può riassumere in 4 pilastri.

  1. Il PD è un partito federale costituito da “elettori ed iscritti”.
  2. Il Segretario nazionale è proposto dal partito come candidato all’incarico di Pres. del Consiglio.
  3. La vocazione maggioritaria.
  4. La contendibilità delle cariche (soprattutto del Segretario nazionale) attraverso lo strumento delle Primarie.

Queste erano le cose che rendevano il PD un partito davvero diverso dal panorama precedente e da quello presente.

Walter svolse bene il suo ruolo conquistando da solo il 34% ma mentre lui faceva il suo, chi doveva sviluppare lo strumento partito (resp. Organizzazione) non fece praticamente nulla che potesse corrispondere a quella grande novità. Si limitò invece a fare la guardia al bidone lasciandolo vuoto e a non cambiare niente della forma partito. Si preoccupò invece, questo sì, di traghettare tutta la passata classe dirigente ricollocandola nei posti chiave in modo che il PD fosse saldamente in mano al vecchio apparato, evitando così di perdere la supremazia.

Sappiamo come finì quella prima fase e degli scontri interni che portarono alle dimissioni di Veltroni che si piegò alle liturgie.

Ecco il grave torto di Renzi. Non avere accettato le regole non scritte. Aver rotto l’equilibrio dei caminetti. Aver dimostrato che si poteva praticare la contendibilità delle cariche. Che il partito non era sotto tutela di nessun “mostro sacro”. Che la regola poteva e doveva essere una testa un voto. La forza del programma del Lingotto di Walter, riproposto aggiornato e corretto, la realizzazione di quella sintesi fra culture diverse ma rese compatibili da comuni valori, l’innesto di una spinta riformista e liberale, la passione e la esuberanza propria della giovane età, determinarono la sua vittoria.

E badate una vittoria netta, senza se e senza ma, con 1.895.332 di voti su 2.814.881 votanti, pari al 67,55%

E con questo risultato si insediò il Governo Renzi che ha dato all’Italia il più lungo ciclo riformista degli ultimi trent’anni. Mille giorni di provvedimenti e riforme che hanno fatto ripartire il Paese, fermo ormai da molti anni, portando il PIL dal – 1.7 al + 1.5 nel 2017. Il Governo, che dopo tante chiacchiere passate, produsse anche una riforma della Costituzione perdendo poi però il referendum confermativo, costringendo così Renzi a dimettersi come aveva promesso.

Ebbene in quei mille giorni, sembrerà strano, ma è stato più forte l’attacco, personale e politico, e la critica dall’interno del PD che dall’opposizione delle forze politiche nel Paese e nel Parlamento.

La vendetta contro il Fiorentino si è dispiegata in tutte le sue forme possibili e con la massima virulenza possibile. Qui si sono viste le cose più incredibili che nemmeno la più fervida fantasia avrebbe potuto immaginare. Non c’è dubbio che in questo i “comunisti” hanno messo in mostra tutta la loro storica bravura acquisita durante i decenni di opposizione, solo che l’hanno fatta volontariamente contro il loro stesso partito. Il Governo Renzi in alcuni momenti ha dovuto svolgere un lavoro di modifica e di mediazione sui provvedimenti parlamentari più con sé stesso che con le opposizioni. Ma sul referendum c’è stato il massimo del cinismo da parte della “ditta”. Essa infatti arriverà ad organizzare, dopo aver votato in Parlamento la riforma costituzionale, i “comitati per il NO” contro la riforma stessa fatta dal proprio Partito.

Ma i comunisti storicamente sono famosi per il livello di cinismo che sanno raggiungere pur di ottenere il loro obiettivo. Ma possono spingersi anche oltre l’immaginabile. Infatti, dopo aver messo al sicuro il Paese insediando il Governo Gentiloni, nonostante Renzi riesca a vincere nuovamente le primarie con un risultato eccezionale (69,17 % con 1.257.091 voti su 1.838.938 votanti), non mollano la presa perché sanno che se riesce a riprendersi potrebbe riconquistare la scena. Allora parte la scissione, preparata durante la campagna contro il referendum, e nella campagna elettorale per le politiche si fa un lavoro di sottrazione di voti nei collegi uninominali che potrebbero essere vincenti per il PD, e lo si accompagna con una indicazione a chi è rimasto dentro, e fa parte della ditta, di non votare e dare indicazione di non far votare a più elettori possibili il PD. I risultati li abbiamo visti tutti. Il PD perde malamente le elezioni e questa volta Renzi sarà costretto a dimettersi da Segretario e ritirarsi definitivamente dalla competizione.

La guerra è vinta. Il Toscanaccio è stato abbattuto. Si può finalmente lavorare per riprendersi la “ditta” ed eliminare il “corpo estraneo”. Non sarà difficile riuscirci. Non c’è bisogno di grandi figure. Basta una persona presentabile, con qualche medaglietta sul petto per imporla all’attenzione di un partito annichilito e deluso per l’uso del fuoco amico contro l’uomo che ha dato al Paese i mille giorni più belli per il ciclo riformista ottenuto, più utili e più importanti per i risultati ottenuti, più significativi per la ripartenza impressa al Paese. Ma tutto questo non ha importanza se ad ottenerlo è stato uno che non aveva il lasciapassare della, questa sì, “casta”. Ma vedrete che in futuro neanche questo comunque basterà. Non basta averlo sconfitto, bisognerà trovare il modo di costringerlo ad andarsene.

Così Zingaretti ha vinto. Complimenti a Zingaretti. Lui oggi è legittimamente il Segretario di questo PD. Io ero ai seggi e ho visto, perché conosco la gente da anni, chi è venuto a votare. Persone che da anni non si erano più viste, ex elettori del PCI che votavano alle primarie per la prima volta, persone mai state e che mai saranno elettori del PD, sinistri sinistri venuti solo per aiutare la ditta, persone impaurite da questo governo di cialtroni che hanno cercato sicurezza in una ricollocazione identitaria d’antan, nostri elettori che si erano allontanati, ecc. Certo, comunque è stato importante che tutta questa gente si sia rivolta al PD, lo abbia tutto sommato ritenuto degno di attenzione e di sostegno. Il problema però è che potrebbe essere stata un’operazione a saldo zero, anzi sotto zero: a fronte di molta gente venuta, molta altra si è invece allontanata, è rimasta scottata e delusa dallo spettacolo offerto dalla minoranza scissionista e autolesionista e dal trattamento riservato a Renzi. Migliaia di persone che si sono avvicinate per la prima volta alla politica attraverso il PD oggi non si fidano più di questo partito tornato nelle mani di chi faceva parte della stessa ditta di quelli che hanno fatto la guerra al PD.

Starà al nuovo Segretario riuscire a ricreare una comunità capace di tornare a lavorare insieme. Per il momento mi costringo a rimanere accettando con lealtà, a differenza di quelli che questa lealtà non hanno mostrato non accettando il risultato inequivocabile ottenuto da Renzi per ben due volte, il risultato della competizione.

Ma devo dire che molti sono già i segnali di normalizzazione a cui si mira. Si sente parlare di giri di vite, di inviti ai “renziani“ ad accomodarsi fuori, di processi di derenzizzazione, interviste, anche di autorevoli personaggi, che suggeriscono ammiccando che forse non sarebbe male pensare di dare vita a tentativi di formazioni di centro riportando il dibattito indietro di undici anni. Oppure segnali di modifiche statutarie volte a snaturare il PD e a ricreare una doppia figura (candidato premier sganciato dalla figura del segretario) che riprodurrebbe una conflittualità permanente che abbiamo già conosciuto. E amenità di questo genere. Io conosco bene il vizietto di marginalizzare gli eccentrici. Di omogeneizzare le forze in campo. E con molta sincerità mi dichiaro pessimista su una vera accettazione del pluralismo come ricchezza. Non è mai successo con la ditta. Lo si è solo declamato. Conosco sulla mia pelle il trattamento che praticano personaggi che ancora dettano la linea e non ritengono sia arrivato il momento anche per loro, di attaccare gli scarpini al chiodo. Le contraddizioni emergono invece sul terreno di alcune prime affermazioni del Segretario, nel senso che, dopo averlo criticato su tutto, si ricalcano posizioni già precedentemente sostenute da Renzi. Così come è successo quando Renzi, dopo le elezioni, intervistato da Fazio, bloccò, criticato fortemente dai suoi detrattori, qualsiasi rapporto con i 5 stelle, posizione a cui poi si è attenuto tutto il partito e a cui sono stati attenti ad allinearsi tutti e tre i candidati alle primarie nonostante inizialmente fosse la posizione netta del solo Giachetti. Miracoli della politica e della ricerca del consenso.

Però la promessa di lealtà, insita nello strumento delle primarie, oggi impone la concessione al vincitore di tempo e spazio necessario per impostare la sua visione del partito e delle politiche da proporre e sostenere. Faccia pure ma non pensi di poterci convincere a tornare indietro rispetto al processo riformista su cui ci eravamo avviati.

Non pensi che si possa accettare di riaccogliere gli scissionisti come se nulla fosse successo.

Insomma, citando Minopoli, c’è poco da girarci intorno, le scelte sono sempre quelle: liberaldemocrazia o socialismo, modernizzazione o restaurazione, opportunità o protezione, federalismo o nazionalismo, crescita o redistribuzione, economia aperta o neostatalismo, globalizzazione o autarchia, cultura o ideologia, futuro o passatismo. Insomma per semplificare con un’immagine: Macron o Corbyn.

Solo questo mi dirà se il PD potrà essere ancora il mio partito e, come a me, lo dirà anche a molti altri che faranno le stesse valutazioni.

Letto 7802

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