Anatomia di una sconfitta elettorale

La sconfitta elettorale, in Italia come in tutta l’Europa occidentale, non fa altro che mettere in evidenza il bisogno di un radicale nuovo inizio per la sinistra.

Ed è evidente che la sinistra ed il suo popolo (quello che è rimasto) dovrà attrezzarsi ad una lunga traversata del deserto o, usate la metafora che più vi piace, una perigliosa navigazione in mare aperto sapendo che forse per arrivare alla meta bisognerà dimenticare i luoghi da cui si è partiti.

Provo umilmente a mettere sulla gobba del nostro cammello o nella stiva della caravella alcuni strumenti degli attrezzi, random, così per cominciare.

Letto 6151
Anatomia di una sconfitta elettorale

In questo disumanamente lungo articolo provo a rendere organici ed a risistemare alcune riflessioni da me fatte sui social man mano che la dimensione e la qualità della sconfitta elettorale del PD si chiariva sempre più nei suoi termini reali.

Parto, in questa mia navigazione, dalla fine prendendo atto che nel post voto è in atto un tentativo di cancellare definitivamente il PD e soprattutto il suo profilo riformista relegandolo in una dimensione protestataria e di testimonianza. Così come si tenta, con un accanimento mai visto, di umiliare il leader sconfitto.

Nel sottolineare, con Nannicini, che la sconfitta non è stata certo causata da un problema di comunicazione ma da un problema politico (e sapendo però che “comunicare” è esercitare il “potere”) individuo gli elementi che hanno contribuito a gonfiare le vele delle forze estremiste.

Elementi che devono essere affiancati nella analisi all’affievolirsi delle tre R renziane, Rottamazione, Riforme, Rinnovamento. Affievolirsi di cui Renzi si prende tutte le responsabilità quando dice che nell’ultima fase siamo apparsi così timidi da apparire rinunciatari.

Provo inoltre ad affrontare un tema poco affrontato e cioè quello della saldatura tra la rabbia sociale e la rivolta delle elites italiane.

Suggerisco di analizzare, per capire come si è spostata l’opinione pubblica negli ultimi 3 anni, le “agende setting” dei principali media italiani.

Provo a smontare il “frame” che è stato imposto e che descrive il PD come il Partito delle imprese e delle banche e non della sofferenza sociale ed è questa l’accusa che mi fa più male.

Soprattutto perché quelli che cavalcano questa accusa resettano la storia degli ultimi 10 anni.

Affronto la retorica inutile degli appelli a “riavvicinarsi al popolo”, la retorica di una sinistra che non ha capito nulla di quanto gli accadeva intorno negli ultimi 30 anni. E mi chiedo dove era la sinistra quando la globalizzazione ha sconvolto, trasformandolo radicalmente, il mondo. Forse stava a Porto Alegre a sparare cazzate o cavalcava acriticamente l’onda modernizzatrice del neoliberismo invece di studiare e riflettere cosa davvero stava accadendo nel mondo del lavoro e nelle aumentate condizioni di sfruttamento in tutto l’occidente.

Tento poi di dare una mia chiave di lettura sul voto del mezzogiorno e, a proposito di un articolo di Repubblica sugli iscritti CGIL del Sud che hanno votato 5 stelle, mi dichiaro orgoglioso di aver disdetto 2 anni fa la tessera della CGIL.

Nell’ambito poi di un ragionamento appena abbozzato sul lavoro che cambia affronto il tema del totem dell’articolo 18 e delle caricature del Jobs act.

E non posso dimenticare le drammatiche colpe dell’Europa per lo sfondamento populista, ricordo le accuse di sgarbo istituzionale verso l’allora premier che, avendo previsto i pericoli che correva l’Europa, e, dopo Bratislava, tentò di scuoterla con parole forti, riassunte nello slogan “l’Europa sì, ma non così”.

Provo a spiegare anche le debolezze della “comunicazione” del PD (da non confondere con la propaganda) debolezze che spiegano perché da anni la sinistra non esercita più nessuna egemonia sulle persone.

Questa cavalcata random sulle mie riflessioni post voto si conclude con l’opinione della filosofa Claudia Mancina che afferma non essere certo una soluzione quella di tornare indietro perché le ricette di una sinistra novecentesca sono inservibili.

È un articolo molto lungo. Fatto di tanti capitoli che sopra ho sintetizzato cercando di darvi una idea. A quelli che intendono andare oltre questa scoraggiante premessa auguro buona lettura.

  • È in atto il tentativo di cancellare per sempre il PD ed il suo profilo riformista, relegando la sinistra in una dimensione protestataria, identitaria e di testimonianza.

Gli errori ci sono sicuramente stati. Dovremo, con pazienza e senza ansie di prestazione e soprattutto con spirito libero da ogni revanchismo interno, esaminarli uno per uno e provare a fare in modo di correggerli per il futuro e non ripeterli più.

Gli errori insieme all’immagine di un campo di forze rissoso e non unito hanno aiutato a perdere clamorosamente.

Ma è evidente da questo post voto che il problema non sono stati solo gli errori che abbiamo commesso. Malgrado il PD sia ormai il secondo partito italiano, votato soltanto dal 18% degli italiani (circa 6 milioni di voti), sui media continua l’opera di demolizione.

È evidente che sia in atto il tentativo di cancellare definitivamente il PD, il suo profilo riformista, dal panorama politico italiano e relegare la sinistra in una dimensione protestataria e di testimonianza.

Lo hanno fatto per anni, utilizzando tutti gli strumenti.

Gli errori sono stati amplificati, una canea massmediologica urlante si abbatteva tutti i giorni contro i Democratici e quando non c’erano errori su cui avventarsi si costruivano fantasiose narrazioni quale quella del PD amico dei banchieri e di Madonna Etruria (narrazioni in cui non c’è nulla che corrisponda alla verità, anzi è vero il contrario e con la riforma delle Popolari ad esempio si è colpito quell’intreccio perverso tra finanza e potentati politici ed economici locali che è stato alla base della crisi delle 8 banche, tra cui Etruria).

E quando finivano le fantasiose narrazioni si è provato con l’attivazione di corpi infedeli dello Stato che hanno costruito prove false per infangare la famiglia del premier Renzi.

Per non parlare del circo mediatico /giudiziario che nel pieno delle campagne elettorali di questi anni faceva scattare inchieste che sembravano epocali e deturpavano l’immagine del PD alimentando la forza del populismo leghista e grillofascio (e non erano soltanto i cronisti del fascio quotidiano a cui qualcuno forniva in anteprima notizie di avvisi di garanzie in arrivo con il dettaglio delle inchieste e copie di intercettazioni).

Inchieste che sembravano epocali e che poi, dopo il voto e nel silenzio assoluto del circo mediatico, finivano con archiviazioni ed assoluzioni.

Cito come esempio (ma se ne potrebbero fare a decine) 3 clamorose inchieste che hanno condizionato lo spirito pubblico nei confronti del PD.

E sono Tempa rossa, l’indagine che coinvolse il Sindaco di Ischia e l’accusa infamante al Presidente del PD Campano di essere legato al carro della Camorra.

Questo insieme di fatti, la campagna sul PD amico dei banchieri e nemico dei risparmiatori, le decine di inchieste farlocche messe in piedi ed amplificate dai media, l’ossessiva campagna contro una sinistra troppo lassista con l’immigrazione accoppiata al funzionamento a regime della macchina della paura, avrebbero stroncato chiunque.

Berlusconi, che comunque, al contrario del PD, di marachelle vere ne ha commesse tante e che ha usato il potere per costruire leggi ad personam, ha resistito molti anni a questo assalto anche perché un bel pezzo del potere mediatico a quei tempi era in mano sua.

Ed oggi come dicevamo l’opera demolitoria continua.

Sui talk show non si parla delle contraddizioni dei vincitori, delle incoerenze dei grillofasci che per l’occupazione del potere sono stati disposti a votare una donna che è il simbolo del berlusconismo, non si fanno fact-checking delle loro affermazioni e non si chiede conto di come attuare le loro mirabolanti promesse.

Si continua invece a demolire il PD.

Mi viene da pensare che alle elites ed all’immarcescibile establishment italiano abbiamo fatto proprio paura e che quindi, come si fa con la gramigna nei campi, è in atto il tentativo di estirparci per sempre dalla scena politica italiana.

  • Il tentativo di umiliare un leader sconfitto.

Come ha scritto Andrea Romano si sta assistendo al rito dell’umiliazione del leader sconfitto anche da parte di coloro che ne avevano condiviso fortuna e responsabilità.

Ma il clima lo ha ben descritto Claudio Magris il grande intellettuale triestino molto critico in questi anni con il PD di Renzi. Dice Magris: “Quello che colpisce, soprattutto in certe trasmissioni televisive, è l’accanimento non solo e non tanto politico, come è giusto e legittimo, ma vischiosamente personale nei confronti di Renzi. Politologi e giornalisti si improvvisano psicologi e psicoanalisti, vogliono penetrare l’inconscio e le interiora del leader oggi sconfitto, ne diagnosticano complessi e nevrosi, quasi appropriandosi del mestiere e del potere del medico — specie quello dell’analista dell’anima, qualsiasi cosa si intenda con tale termine — ben più inquietante del potere del politico vittorioso per 10 o 15 punti alle elezioni.

Alla tv, mentre belle presentatrici sorridono compiaciute come le spettatrici alla corrida quando il toro viene infilzato, sulle facce di alcuni commentatori si vede non la fredda e pacata espressione del giudizio dell’interesse politico, come sarebbe ovvio. Si vedono piuttosto sorrisetti e smorfiette di piacere, quasi un piccino e furbetto godimento sessuale”.

  • Non è un problema di comunicazione, è un problema politico (da una seria ed autocritica analisi di Tommaso Nannicini)

Sia chiaro: perdere le elezioni quando hai fatto cose buone per il tuo Paese non è un’attenuante, ma un’aggravante. Vuol dire aver fallito sul terreno della politica. Non c’è stato solo un problema di comunicazione. C’è stato un problema politico.

Abbiamo fatto fatica a ricondurre le nostre scelte di governo (o le nostre proposte elettorali) dentro a quella che la psicologia politica chiama “costituzione emotiva”: quell’insieme di valori, principi e macro obiettivi che – da una parte – plasmano l’identità di un partito e – dall’altra – servono da interpretatori di senso per capire le politiche che quel partito sta portando avanti.

Troppe scelte che abbiamo fatto faticavano a stare dentro alla stessa costituzione emotiva: la lotta all’evasione con l’innalzamento del limite sul contante, il reddito di inclusione con l’abolizione delle tasse sulla casa per tutti, il Jobs act con la liberalizzazione dei contratti a termine, e così via.

Sia chiaro: quelle scelte di policy avevano delle motivazioni (più o meno valide) nel breve periodo, ma nonostante questo faticavano a convivere dentro alla stessa costituzione emotiva.

Finendo per non far capire agli elettori per che cosa si stesse battendo il Pd, al di là delle scelte di governo e dell’operato (più o meno efficace) dei propri ministri.”

  • Prendere atto che comunicazione è potere. E che senza potere non si cambia alcunchè.

Non condivido l’affermazione, comune a tanti a sinistra, che “a chi scommette sulle emozioni bisogna contrapporre ragionamenti e risposte credibili che sappiano interpretare i disagi del passaggio storico che stiamo vivendo”.

Non bastano a mio avviso ragionamenti e risposte credibili se non si trovano, direbbe Drew Westen, le parole giuste per rappresentarle (o per dirla invece con Lakoff se non si attivano le metafore adeguate che attivino le giuste sinapsi neuronali nel cervello degli elettori).

Non è un banale problema di saper comunicare. È prendere atto che “comunicazione è potere”.

E comunicare oggi, nella società digitale e nell’era dell’informazione, non è un mestiere da agit prop ma un mestiere più complesso.

E, nel fare questo mestiere, sottovalutare il ruolo delle emozioni nel comportamento delle scelte politiche degli elettori è destinarsi alla irrilevanza (con un linguaggio antico direi che ci si destina a non esercitare nessuna egemonia).

Il libro di Drew Westen sulla “mente politica (che con piacere ho visto citare da Tommaso Nannicini) si apre con una domanda cruciale: “perché agli elettori USA piacciono molto i programmi dei democratici ma poi quando vanno a votare fanno vincere i repubblicani?”

La risposta a questa domanda è l’argomento principale di quel libro se avrete la curiosità di leggerlo.

Tenere conto delle emozioni non significa imitare il comportamento dei populisti, significa soltanto attivare quei frame giusti che attivano nella mente degli elettori le sinapsi positive dell’empatia, dell’amicizia, della solidarietà e non quelle dell’odio, della aggressività, della chiusura (le une e le altre incistate dalla notte dei tempi nel cervello limbico degli umani, in quella parte del nostro cervello, l’amigdala, che abbiamo in comune con la specie animale).

Per fare questo il linguaggio della razionalità strumentale, l’elenco anonimo delle cose fatte e di quelle da fare non serve a molto.

  • Mi prendo tutta la responsabilità. Abbiamo avuto una linea confusa, né carne né pesce. Così timidi e moderati da sembrare rinunciatari. (Matteo Renzi nell’intervista al Corriere)

“Siamo passati da 13 milioni di voti del referendum ai 6 milioni di domenica scorsa. Abbiamo dimezzato i voti assoluti rispetto a quindici mesi fa. Allora eravamo chiari nella proposta e nelle idee. Stavolta — e mi prendo la responsabilità — la linea era confusa, né carne né pesce: così prudenti e moderati da sembrare timidi e rinunciatari. Dopo un dibattito interno logorante, alcuni nostri candidati non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd, ma solo sulla loro persona.

Lei conosce qualcuno che entra in un negozio se persino il commesso dice che la merce in vendita non è granché? Poi ci sono ragioni più profonde. Internazionali: ha letto cosa dice Bannon, il primo ideologo di Trump, sull’Italia capitale del populismo? E nazionali, a cominciare dal disastro nel Sud. Ci attende una lunga traversata nel deserto. Ma ripartire da zero, dall’opposizione, può essere una grande occasione. La politica è fatta di veloci cambi. La sconfitta è una battuta d’arresto netta, ma non è la fine di tutto. Cinque anni fa Pd e 5 Stelle finirono 25 pari. Alle Europee è finita 40-20 per noi. Adesso 32-18 per loro. La ruota gira, la rivincita verrà prima del previsto”.

  • Rottamazione Riforme Rinnovamento

Ha ragione chi dice che alle Europee Renzi vinse perché era identificato come il leader delle 3 R: Rottamazione Riforme Rinnovamento.

L’aver cercato di tenere unito il PD (senza peraltro riuscirci) ha comportato l’affievolimento della spinta propulsiva di queste 3 R.

La rottamazione ed il rinnovamento si sono interrotti e si sono privilegiati gli accordi al ribasso interni al Partito e, errore gravissimo, l’affidarsi al Sud ai ras locali invece di sbaraccare tutto ricominciando da un nucleo di giovani magari inesperti e senza preferenze ma pieni di passione civile.

Le Riforme costituzionali dopo la sconfitta del referendum sono state messe in cantina e mai più nominate se non come una occasione persa.

  • Ecco gli elementi che hanno soffiato sulle vele di forze estremiste.

Tommaso NannicinI mette in fila tre elementi hanno finito per soffiare sulle vele di forze estremiste e populiste, che in Italia hanno trovato terreno fertile anche per le storiche debolezze delle nostre istituzioni e per il ruolo che l’anti-politica ha giocato a più riprese nella nostra cultura collettiva:

Primo: le ferite ancora aperte della crisi economica (rispetto alle quali, noi del Pd, avremmo dovuto mostrare più empatia, facendo capire che per cicatrizzarle occorrono tempo e scelte coraggiose, come quelle che avevamo iniziato a fare).

Secondo: il fascino di soluzioni tanto semplici quanto illusorie rispetto a nuove insicurezze (a fronte della nostra incapacità di inserire in una “costituzione emotiva” risposte più solide perché più complesse).

Terzo: il malcontento verso un rinnovamento troppo lento o scarsamente selettivo della nostra classe politica.”

  • La saldatura tra la rabbia sociale e la rivolta delle elites italiche.

È evidente che la dura sconfitta del PD è dovuta al sopravvento di una giustificata rabbia sociale, di un disagio vero tra i nostri concittadini che ancora non si sono ripresi dallo choc della crisi globale del 2008.

Con le considerazioni che seguono non intendo sottovalutare il ruolo di questa rabbia e di questo disagio né tantomeno nascondere l’incapacità del PD come partito di presidiare i luoghi di questa rabbia e di questo disagio.

Intendo solo sottolineare il fatto che la rabbia ed il rancore che veniva dal basso sono stati blanditi ed amplificati da un'altra rivolta che era agitata dall’alto e che ha visto protagonisti paralleli le elites italiane e il nostro establishment immarcescibile.

E questa rivolta non aveva alla sua base il disagio sociale ma solo la paura di perdere quei privilegi e quelle protezioni che in tanti anni sono diventati quasi una specie di diritti acquisiti.

La rivolta delle elites è avvenuta perché il giovane fiorentino probabilmente aveva cominciato a fare sul serio, avviandosi a smontare antiche abitudini di un paese che su queste antiche abitudine aveva costruito la sua pace sociale ma anche la caterva del suo debito pubblico.

E di queste antiche abitudine ne è un piccolo esempio quella riserva indiana del Cnel dove trovano ristoro alla fine della loro carriera eminenti sindacalisti, industriali, politici.

Così come altro piccolo esempio è il tetto allo stipendio dei dirigenti pubblici e la fine della loro inamovibilità.

E vogliamo parlare del nuovo meccanismo dei Patti territoriali con Regioni e Comuni? Immaginate cosa ha significato nel Mezzogiorno il fatto che questi Patti messi in piedi da Renzi e Del RIo prevedevano lo stretto controllo dell’Autorità anticorruzione su ogni appalto, la cabina di regia centrale che bypassasse le resistenze burocratiche ed i poteri sostitutivi dello Stato in caso di incapacità manifesta degli enti territoriali.

Oppure provate ad immaginare la paura dei membri della Corte Costituzionale se questo riformismo radicale fosse arrivato pure a toccare quel meccanismo che porta a cambiare in continuazione il loro Presidente non per una questione procedurale ma solo perché un Presidente dell’Alta Corte va in pensione con un appannaggio più alto.

E tra le forze avverse ci vogliamo mettere anche quel vasto tessuto di complicità che avevano trasformato le Banche popolari ad essere organismi malati dentro un sistema sostanzialmente sano, tessuto di complicità che è stato smantellato grazie alla riforma delle Popolari, riforma che non era riuscita neanche a Ciampi, bloccato 17 anni fa dai convergenti interessi di destra e di sinistra?

O vogliamo parlare del sistema del caporalato nel Mezzogiorno finalmente colpito da una legge che lo stesso Renzi ha preteso, come racconta Teresa Bellanova, dopo la morte nei campi per supersfruttamento, di una bracciante pugliese? Un sistema di sfruttamento che però portava, nel Mezzogiorno, preferenze e consensi elettorali anche a sinistra (ed è forse questo il motivo per cui sul fenomeno si sono fatti tanti convegni ma mai si era prodotta una legislazione che mirasse a stroncarlo).

D’altronde non sarebbe la prima volta che i potenti, sentendosi insidiati dalle forze del cambiamento, si mettono a capeggiare la rivolta strumentalizzando il malessere vero di chi sta peggio!!

Questo naturalmente non assolve il PD e l’intera sua classe dirigente che non ha capito per tempo il livello dello scontro in atto e non si è attrezzata in alcun modo a contrattaccare.

  • Le agende setting degli ultimi 3 anni.

Per fare una completa analisi su quanto è accaduto alle recenti elezioni politiche suggerisco di compiere anche una analisi delle agende setting dei media negli ultimi 3 anni.

Si capirebbe come il sistema dei media non è stato lo specchio della realtà ma il costruttore della realtà (almeno di quella percepita).

E si capirebbe quali sono stati i frame incistati nelle sinapsi neuronali di larghi strati (quelli che trascinano gli altri) di opinione.

  • Ha vinto il frame del PD come Partito delle imprese e delle banche e non della sofferenza sociale.

Ed anche su questo ci sarebbe da ribaltare quella che è l’opinione corrente.

Perché come ha scritto Claudia Mancina “i ceti più deboli possono essere sostenuti in modo efficace soltanto all’interno di un progetto di crescita, e quindi soltanto all’interno di una alleanza con i ceti più forti e produttivi. Deboli e forti insieme, nel quadro di una netta scelta europeista: solo così si può pensare di vincere la sfida”.

Le imprese creano lavoro e occupazione. Le banche sono essenziale per finanziare l’economia (e quando durante la crisi si sono fermate non erogando piu’ prestiti ne ha risentito tutta l’economia).

E quindi se, in maniera selettiva, sono anche state ridotte le tasse alle aziende, se si è investito su industria 4.0, se si sono attivate forme di decontribuzione sul costo del lavoro anche questo è stato un modo di affrontare l’emergenza sociale, perché se le imprese non sono aiutate chiudono e se chiudono producono licenziamenti e povertà.

Analogo ragionamento va fatto sulle banche. Si è intervenuto non per salvare i banchieri ma per mettere in sicurezza i conti correnti, i posti di lavoro e il sistema delle imprese che vive solo grazie ai finanziamenti bancari (senza i quali nessuna economia al mondo gira).

Per questi motivi l’accusa fa male. Soprattutto se fatta da dentro il PD.

La sofferenza sociale c’è. È enorme. E coinvolge tutti i ceti sociali (compresi quel mondo imprenditoriale a cui la tassazione divora gran parte degli utili). E grande è il rancore sociale che viene aumentato da eserciti di odiatori di professione scatenati da quelle forze populiste che oggi elemosinano l’appoggio del PD.

La concezione pauperistica, quella del “dobbiamo stare accanto alla gente che soffre” è di una banalità scontata.

  • L’accusa che mi fa più male.

L’accusa che mi fa più male rivolta da dentro il PD a Renzi ed ai governi del PD è quella che sostiene l’indifferenza delle nostre classi dirigenti alle sofferenze sociali. E di non aver fatto nulla per contrastarle (qualcuno si avventura a dire, anche dentro il PD, che abbiamo favorito banche ed industriali).

E mi fa male perché non è vero. Semplicemente.

Può essere stato insufficiente ma le misure prese contro la sofferenza sociale sono state numerose.

Per la prima volta è stato creato il fondo per la inclusione sociale con l’obiettivo a regime di coprire tutte le situazioni di povertà.

Una misura contro la sofferenza sociale è stata anche la misura degli 80 euro (980 euro annui, una quattordicesima per chi ha un salario medio basso). Così come è stato un intervento sociale la quattordicesima per le pensioni minime.

Gli interventi per le famiglie con figli (fino al pagamento di una quota delle rette degli Asili Nido) rientrano in questa categoria. Incontro alla sofferenza sociale sono andate anche le leggi sul dopo di noi e quelle sull’autismo.

L’allargamento della protezione sociale ai lavoratori delle imprese sotto i 15 dipendenti, ai lavoratori a tempo determinato e, in misura diversa anche alle partite Iva, cosa è se non un’attenzione al fronte della sofferenza sociale?

E non lo è anche l’eliminazione delle tasse per gli studenti universitari più poveri ed il loro forte abbattimento per i figli dei lavoratori?

E non è una attenzione alla sofferenza sociale la legge sul caporalato o quella che ha eliminato la pratica assurda delle dimissioni in bianco?

Ribadisco che la sofferenza sociale c’è ed è enorme e coinvolge tutti i ceti sociali. Ma non si può rattrappire l’analisi delle cause di questa sofferenza e di questo rancore agli ultimi 3 anni, cioè su quegli anni in cui un tentativo (timido quanto volete) di invertire la tendenza è stato fatto.

E si cancellano gli anni drammatici della crisi del 2008, portando addirittura a vincere quelle forze di centrodestra che in quegli anni hanno ignorato la crisi facendoci arrivare ai margini del burrone (lo spread che schizzava a quota seicento ed i giornali che gridavano fate presto). Così come si cancellano gli anni dell’austerità di Monti che hanno certamente messo insicurezza il paese ma sulle spalle dei più deboli tagliando selvaggiamente pezzi interi di Stato sociale.

La sofferenza sociale e la povertà di oggi sono il frutto di quegli anni.

Ed io sono orgoglioso di aver fatto parte di un Partito che negli ultimi 4 anni ha provato ad invertire quella tendenza e ad imporre all’Europa una linea di flessibilità sui conti che ha permesso quelle azioni sociali che dicevo all’inizio. Per vedere i frutti di questa inversione di tendenza c’era bisogno di più tempo. Quel tempo che il 4 marzo gli elettori ci hanno negato affidandosi a forze politiche che, come vedremo in futuro, sono il problema e non la soluzione.

  • Altro che reddito di cittadinanza!!! La possente impalcatura legislativa messa in piedi dai governi PD per sostenere chi perde il lavoro e combattere disuguaglianze e povertà.

Non c’è dubbio che la sfida più grande che la sinistra ha di fronte per i prossimi anni e quella di far quadrare il cerchio tra una crescita sostenibile della economia (con interventi a favore delle imprese) e l’abbattimento delle povertà e delle disuguaglianze (che sono due cose molto diverse, la disuguaglianza può esistere anche in mancanza di povertà).

Per questo secondo aspetto io credo che il governo Renzi si è avanzato con il lavoro costruendo l’impalcatura che nei prossimi anni dovrà consentire di abbattere sia la povertà che l’uguaglianza.

Come è stato detto sicuramente l’errore più importante che il PD ha commesso è quello di non aver capito (ed è un errore politico non di comunicazione) che sono ancora aperte e fanno male (riducendo il capitale di fiducia senza il quale nessuna società può andare avanti) le ferite e le sofferenze impresse dalla crisi economica. Si è dato per scontato che i segni più negli indicatori macroeconomici bastassero per riaccendere questa fiducia e non abbiamo capito che ci vuole tempo per cicatrizzare quelle ferite.

Ma l’analisi di questo errore non può, razionalmente, non farci vedere che negli ultimi anni sono stati varati efficacissimi strumenti legislativi che appunto, visti tutti insieme, costituiscono quella impalcatura necessaria a combattere povertà e disuguaglianza. Ed è davvero indecente sentire analisi sul voto che accusano il PD di essersi disinteressato dei più deboli.

Questi strumenti legislativi (prima di Renzi inesistenti) godono già di finanziamenti ma, come era nelle previsioni del programma PD, necessitano di una ulteriore implementazione finanziaria (che è più sostenibile rispetto alle demagogie dei 5 stelle oltre che più efficace in termine sociale perché lega l’aiuto economico alla ricerca di un nuovo lavoro, ricerca di cui si fa carico lo Stato).

Ed una sinistra che sia sinistra contemporanea non si deve attardare su totem inutili come l’articolo 18 ma deve semmai lavorare e battersi perché questi strumenti vedano nei prossimi anni un aumento delle loro disponibilità finanziarie.

E sono strumenti non assistenzialistici, altro che reddito di cittadinanza!

Questa possente impalcatura si basa, sintetizzando, su 3 strumenti.

  • La nuova articolazione del welfare a sostegno di chi perde il lavoro, cassa integrazione, Naspi e Discoll.
  • L’assegno di ricollocazione per favorire il reimpiego per chi ha perso il lavoro.
  • Il reddito di inclusione, misura mai prevista in Italia contro la Povertà.

L’incrocio di questi strumenti genera una protezione potentissima finalizzata a politiche attive del lavoro.

1)       La nuova articolazione del welfare prevista dal Jobs act, oltre ad allargare la cassa integrazione alle aziende sotto i 15 dipendenti, prevede, alla fine del periodo di cassa che si conclude con un licenziamento l’erogazione della NASPI raddoppiata a due anni e che arriva anche ad un massimo di 1300 euro mese. Alla fine della NASPI il Jobs act introduce l’ASDI il nuovo assegno di disoccupazione, destinato ai lavoratori dipendenti che hanno esaurito l’intera durata della NASPI e che si trovino nello stato di disoccupazione ed in una situazione economica di necessità.

Con lo Statuto del lavoro autonomo è stato reso strutturale il DISCOLL, uno strumento previsto invia sperimentale dal Jobs act, che regola per la prima volta l'indennità di disoccupazione per collaboratori coordinati e continuativi con o senza modalità a progetto, ma coinvolge anche i ricercatori, borsisti e dottorandi a partire dagli eventi di disoccupazione intervenuti dal 1° luglio 2017.

Una sinistra che sia sinistra prende incarta e porta a casa tutto ciò e si batte perché le disponibilità finanziarie siano adeguate.

2)       Altro strumento importantissimo e potente è il cosiddetto assegno di ricollocazione che entra a regime il 3 aprile 2018. L’assegno è finalizzato a dare un’opportunità di impiego a un disoccupato che sia almeno da quattro mesi percettore di Naspi, ma anche a chi rientra nelle politiche di contrasto alla povertà o è in cassa integrazione straordinaria. La gestione dell’assegno di ricollocazione sarà affidata all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) e consiste in è un contributo economico che va da 250 a 5.000 euro per i servizi per il lavoro (Centri per l’impiego, agenzie per il lavoro accreditate e fondazione consulenti del lavoro) che offrono un’opportunità di impiego a un disoccupato percettore di Naspi, di REI o di cassa integrazione straordinaria.

Una sinistra che fa la sinistra si deve battere per implementare le disponibilità finanziarie di questo strumento che deve facilitare il passaggio del lavoratore da lavoro a lavoro riducendo al massimo i periodi di disoccupazione.

3)       Il Reddito di inclusione (REI) è invece un efficacissimo strumento di lotta alla povertà che, come abbiamo visto, dà anche diritto ad entrare nel circuito della Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro beneficiando dei servizi di ricollocazione offerti dall’assegno di ricollocazione detto sopra.

Il REI ha iniziato la sua sperimentazione con un primo finanziamento dal gennaio 2018 ed ha riguardato complessivamente 900.000 persone in stato di povertà e con gli ulteriori finanziamenti, previsti dal governo del PD, da luglio la platea si allargherà ad oltre 2 milioni e mezzo di persone.

Una sinistra che fa la sinistra si deve concentrare ad ampliare la disponibilità finanziaria fino a raggiungere tutte quelle persone (circa 4 milioni e mezzo) che vivono in condizioni povertà estrema. E se avesse vinto le elezioni, per il PD questa era una delle priorità.

  • I più si dimenticano della storia degli ultimi 10 anni.

Tutti, nell’ansia di dare ogni colpa al PD renziano e nel desiderio di umiliare il giovane fiorentino, fanno finta di dimenticare la storia degli ultimi 10 anni, di dimenticare soprattutto che nel 2008 scoppiò la piu’ grave crisi globale dal 1929 ad oggi (preannunciata però da alcune crisi locali a cavallo del nuovo millennio).

La crisi scoppiata negli USA si è poi propagata in tutto il mondo colpendo le economie del vecchio continente.

Tale crisi devastante ha significato perdita di posti di lavoro, chiusure di aziende, abbattimento del tenore di vita del ceto medio, aumento della povertà e delle disuguaglianze.

Il potere politico, sotto la dettatura della tecnocrazia europea di orientamento ordoliberista, reagì a questa crisi chiedendo maggiore rigore dei conti, tagli selvaggi alle spese, accentuazione delle politiche di austerità.

In Italia, al contrario, dal 2008 al 2011, cioè nel pieno della tempesta, i governi Berlusconi Tremonti Bossi Salvini reagirono negando l’esistenza della crisi e non fecero nulla per contrastarla. Fino alla crisi dello spread quando Berlusconi fu cacciato e fu insediato (con l’appoggio delle sinistre di Bersani e D’Alema) il governo di Mario Monti, un governo tecnocratico che applicò fedelmente le richieste della troyka e della BCE a guida, all’epoca, tedesca.

Con Monti e Bersani furono solo lacrime e sangue, tagli alla spesa pubblica senza alcun criterio.

L’emorragia fu fermata ma il paziente stava per morire.

È lì che ha la radice la rabbia ed il rancore esploso con le recenti elezioni.

I segnali erano già chiari con l’exploit dei 5 stelle nel 2013.

Ed è però paradossale che l’esplosione della rabbia e del rancore (declinato da un lato con l’odio grillino e dall’altro con la xenofobia leghista) avvenga quando il nostro paese cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel con tutti i segni macroeconomici orientati verso il segno più.

E questo paradosso è possibile perché c’è una discrasia profonda tra il dato macroeconomico e la vita quotidiana della gente e soprattutto dei più giovani.

Il messaggio di speranza contro la paura che il PD ha cercato di diffondere si è scontrato (soprattutto al sud) con una sofferenza sociale di cui si era consapevoli ma che non si è riusciti ad intercettare nella illusione che la ripresa economica avesse mitigato rabbia e rancore. Ma era ancora presto. E dovevamo saperlo.

E così una legislatura che quando si saranno quietate le polveri della polemica politica sarà ricordata come la più produttiva della storia della seconda Repubblica è stata travolta dal populismo grillo leghista che ha tanti punti in comune.

Questa è la storia. Non credo smentibile.

Si poteva fare altro? Dal punto del governo non credo si potesse fare di più.

Forse bisognava essere meno trionfalisti sui risultati economici raggiunti non perché fossero falsi, anzi, ma perché ancora quei risultati non erano scesi nella vita quotidiana dei cittadini, migliorandola.

Sicuramente, come ci suggeriva Carmine Fotia non abbiamo avuto un Partito di governo ma un Governo senza Partito. Cioè un Partito inesistente sui territori, non in grado di essere l’antenna che intercettava il disagio e trasformatosi purtroppo in un comitato elettorale permanente del ras di turno (nel sud questa discrasia è stata catastrofica).

  • Dove era la sinistra quando la globalizzazione ha sconvolto il mondo? (la sinistra stava o a Porto Alegre a sparare cazzate o a cavalcare acriticamente l’onda modernizzatrice del neoliberismo). Cosa è accaduto davvero nel mondo del lavoro in occidente sotto la pressione di popolazioni giovani che premevano e premono per uscire dalla miseria? Non se ne può più di appelli a riavvicinarsi al popolo. La solita retorica di una certa sinistra che non ha capito nulla di quanto gli accadeva intorno negli ultimi 30 anni.

Non vi è alcun dubbio che negli ultimi 30 anni le condizioni in cui si svolge il lavoro siano notevolmente peggiorate.

Questo peggioramento è certamente precedente alla crisi del 2008 ed è figlio di una modernizzazione a metà, di una globalizzazione solo economica a cui non è seguita anche una globalizzazione dei poteri politici.

E le condizioni di lavoro in Italia (ma è un fenomeno mondiale) sono peggiorate malgrado l’esistenza di una tutela (integrale ma inefficace) come l’articolo 18.

Accusare oggi il Jobs act di aver peggiorato le condizioni dei lavoratori rispetto a quelle esistenti fino alla fine deli anni 70 è una falsità ideologica conseguente ad una incapacità di leggere quel che è accaduto negli ultimi 30 anni.

Difendere migliori condizioni di lavoro ai tempi della potenza degli Stati nazionali e di una economia legata a i territori statali era più semplice. Le Istituzioni, lo Stato, i Partiti, i Sindacati e l’economia giocavano nello stesso campo da gioco e con le stesse regole.

Il turbo capitalismo globalizzato ha sradicato tutto questo.

La velocità dei flussi finanziari, dei flussi informativi, dello scambio di cose e anche della mobilità delle persone ha divelto ogni possibilità di resistenza dei lavoratori delle società occidentali.

La globalizzazione ha risvegliato interi continenti.

Paradossalmente la povertà globale è diminuita ed è cresciuta quella dell’Occidente.

Le popolazioni giovani del mondo, giovani e piene di vita, desiderose di migliorare le loro condizioni di vita, hanno imparato a produrre come noi e lo fanno a costi più bassi dei nostri.

Quelli che per noi occidentali sono salari da fame e condizioni di lavoro supersfruttate sono invece per quei miliardi di persone l’essere usciti dalla soglia della povertà assoluta dove vivevano con pochi euro al giorno.

Questa situazione ha prodotto la difficoltà di mantenere i livelli di dignità del lavoro conquistati in Occidente nel secondo dopoguerra.

Quindi quando sento accusare il Jobs act di aver peggiorato le condizioni di lavoro rimango basito per l’ignoranza di chi lo afferma.

Ed a farlo per lo più sono appartenenti di quelle classi dirigenti della sinistra che negli ultimi 30 anni non si sono accorti di quello che stava accadendo ed anzi hanno inseguito, scimmiottandole, le mode neoliberiste.

Dove erano Orlando e Cuperlo in quegli anni? Erano giovani certo ma erano acquattati dietro quella classe dirigente più adulta che esaltava la “modernizzazione” senza studiare le contromisure necessarie a prevenire quello che poi è accaduto.

Non si trattava allora né di esaltare ma neanche di combattere (sarebbe stato inutile) la globalizzazione. Si trattava solo di capire che il punto numero uno di ogni iniziativa politica doveva essere la battaglia per “cosmopolitizzare” la Politica, renderla transnazionale, in grado di competere pari a pari con le nuove forze selvagge della economia finanziaria (e tutto questo mentre noi ci baloccavamo con gli ulivi e le unioni e i girotondi contro le peripezie giudiziarie di Berlusconi).

Invece si è rimasti acquattati dietro le vecchie certezze degli Stati nazionali, certezze che ad una ad una venivano frantumate.

Il Jobs act è intervenuto quando tutto questo era già accaduto. Quando la crisi aveva distrutto milioni di forze lavoro e quando le nuove assunzioni (inferiori all’epoca ai licenziamenti individuali o collettive) erano soltanto precarissime bypassando le tutele dell’articolo 18 che ormai difendeva soltanto chi aveva già un posto di lavoro stabile e non certo i giovani neoassunti.

Per questo io sostengo che il contratto a tutele crescenti ma anche i nuovi diritti per i contratti a tempo determinato sono un passo avanti e non certo indietro.

Quello che è mancato in questi anni di Jobs act semmai è stata la piena attivazione delle nuove agenzie per il lavoro che dovrebbero garantire (nell’impalcatura complessiva del Jobs act) il passaggio da lavoro a lavoro in caso di licenziamento (e tale ritardo è dovuto anche al fallimento del referendum costituzionale che unificava e centralizzava la gestione dei vecchi centri per l’impiego rimasti invece frantumati nella gestione di ogni singola regione).

Ed è mancata, non c’è stato il tempo, la misura per far costare strutturalmente di meno il tempo indeterminato.

Tutto questo non c’entra nulla con l’aumento dello sfruttamento sul lavoro che è frutto di un ricatto globale dovuto alla concorrenza di altri popoli appena entrati nell’arena mondiale del mercato del lavoro.

E non ho il coraggio di pensare a cosa potrà accadere alle nostre economie se l’Africa si risveglia ed invece di inondare di sbarchi le nostre coste comincia a farci concorrenza economica (e sarà un periodo in cui rimpiangeremo quelle poche centinaia di migliaia di africani che a bordo dei gommoni sembra abbiano invaso il nostro paese).

Ecco a me piacerebbe che si discutesse di questo. Si approfondissero queste questioni. E non ci si rinfacciasse ogni giorno di aver tradito qualcosa o qualcuno.

  • Una chiave di lettura sul voto del mezzogiorno.

Non intendo certo negare la rabbia ed il rancore sociale che cova nel mezzogiorno e che come una fiammata ha incendiato il panorama politico votando in massa per i 5 stelle (atteggiamento tipico nella storia delle vandee meridionali dove le plebi invece di organizzarsi in sindacati e partiti di sinistra per battaglie di lunga durata  esplodevano rabbiose in fiammate temporanea dando fuoco ai Municipi ed ai simboli del potere per poi acquietarsi subito dopo fino alla prossima ribellione estemporanea).

Ripeto, non intendo certo negare disagio e rabbia delle popolazioni meridionali ma voglio riflettere sul perché anche l’establishment meridionale, le elites industriali, politiche e dei media hanno fatto da apprendisti stregoni alle forze antisistema.

Vi invito a riflettere su un punto che abbiamo trascurato nelle nostre analisi. Mi riferisco ai meccanismi innovativi nella gestione delle risorse finanziarie per investimenti destinate a Regioni e Comuni.

Parlo dei Patti territoriali voluti da Renzi e Del Rio che, oltre a prevedere il controllo stabile e continuo dell’autorità anticorruzione di Cantone sui singoli appalti, prevedono anche una cabina di regia paritetica tra Governo ed Enti territoriali (Regioni o Comuni) finalizzata a sbloccare le procedure burocratiche ed a monitorare gli stati di avanzamento di progetti ed opere e prevedono infine, in caso di inerzia di Regioni o Comuni, i poteri sostitutivi da parte del Governo.

È evidente che di fronte a tutto questo chi per decenni ha sprecato per decenni i fondi che al Sud sono arrivati copiosi (molti di più, è stato conteggiato, di quelli che la Germania ha destinato all’Est post comunista dopo la caduta del muro) non poteva che augurarsi la sconfitta di chi aveva messo in piedi questo meccanismo virtuoso.

E non hanno avuto problemi a lasciare campo libero ai 5 Stelle.

  • Un limite di decenza da non valicare nella necessaria critica e autocritica della sconfitta nel Sud. Parla Claudio De Vincenti.

“Va bene tutto, va bene la critica e pure l’autocritica, ma c’è un limite anche di decenza da non valicare: se ci sono governi che hanno preso misure concrete per il Sud sono esclusivamente i governi Renzi e Gentiloni. In precedenza, nessun esecutivo si è mai mobilitato come gli ultimi due a favore del Mezzogiorno.

Ricordo che con i Patti per il Sud abbiamo già sbloccato quasi 9 miliardi di investimenti pubblici, che con il credito d’imposta investimenti abbiamo messo in moto nel solo 2017 al Sud 4 miliardi di investimenti e con la decontribuzione 113.000 nuove assunzioni a tempo indeterminato, che Resto al Sud è già operativo e lo sportello Invitalia ha registrato in questi primi due mesi già oltre 7.000 richieste, che il decreto sui criteri per costituire le Zes è stato già emanato e le Regioni stanno elaborando le loro proposte, che il Fondo per la crescita dimensionale delle imprese meridionali ha già le risorse versate nella contabilità speciale e stiamo varando (a poco più di due mesi dalla Legge di bilancio che lo ha istituito) la convenzione istitutiva. Per il bene del Mezzogiorno d’Italia mi auguro che il governo che verrà sappia andare avanti sulla strada che abbiamo tracciato noi”

Non è vero che non abbiamo visto la povertà, il fatto è che non abbiamo tenuto conto del fatto che la profondità della crisi che siamo riusciti a superare implicava che la ripresa non avrebbe sanato subito le ferite sociali prodotte dalla crisi.

Abbiamo creato oltre 900.000 posti di lavoro (300.000 nel Mezzogiorno) ma ci sono ancora (soprattutto al Sud) tanti disoccupati o persone che hanno rinunciato a trovare lavoro.

Perciò le misure che hanno rimesso in moto l’economia e che stanno consolidando la ripresa sono state paradossalmente percepite come misure per chi è in grado di farcela e non, come invece erano e sono, misure per aprire sempre più le porte del mondo del lavoro a tutti.

 È come se le nostre misure si fossero fermate in “alto”, non fossero arrivate alle persone in carne e ossa. Ecco, non siamo apparsi in sintonia con quelle sofferenze e quelle ansie alle quali pure volevamo rispondere, siamo apparsi estranei ai tanti che ancora stentano a ritrovare la fiducia nel futuro”

  • A proposito di un articolo di Repubblica sugli iscritti CGIL del Sud che hanno votato per i 5 stelle.

Inviterei quei dirigenti meridionali della CGIL che starnazzano banalità in una inchiesta di Repubblica a spiegarci perché il gap tra il nord ed il sud del nostro paese è ancora così alto malgrado il mezzogiorno abbia avuto negli anni molto più finanziamenti di quanti la Germania ha destinato alla sua unificazione dopo la caduta del muro.

La CGIL meridionale, invece di parlare di Jobs act, perché non si interroga sul suo ruolo e sulle sue complicità in questo disastro?

Perché non è smentibile che quelle ingenti risorse non hanno colmato questo gap innanzitutto per colpa delle classi dirigenti (politici, sindacati, industriali) scelte fino ad oggi dagli stessi meridionali, molti dei quali, in cambio delle briciole, hanno tollerato che questi ingenti finanziamenti finanziassero per lo più l’economia illegale di cui in moltissimi hanno beneficiato.

Ed invece di parlare del Jobs act la CGIL meridionale ci dicesse se abbiamo sbagliato a mettere in campo il meccanismo dei patti territoriali che contrastava tutto ciò attraverso una cabina di regia centrale, il ruolo fondamentale di controllo dell’Anac di Cantone e l’attivazione dei poteri sostitutivi in caso di inerzia degli enti territoriali?

O ci dicesse se abbiamo sbagliato a colpire duramente con una legge severa il sistema del caporalato che non è un fenomeno folcloristico ma uno dei pilastri della economia meridionale, soprattutto quella illegale.

Altro che Jobs act!!!  Senza i caporali che procurano i nuovi schiavi molte aziende (non solo agricole) chiuderebbero. Ed i caporali sono anche organizzatori del consenso mentre gli schiavi non votano.

Ed al sindacalista campano che parla del voto di Scampia (dove vincono i 5 stelle e dove la Lega prende gli stessi voti di LeU) mi piacerebbe domandare se abbiamo sbagliato a finanziare con il piano delle periferie l’abbattimento delle vele.

  • Orgoglioso di aver disdetto la tessera CGIL due anni fa.

Articolone su Repubblica sui pezzi di CGIL, soprattutto nel mezzogiorno, che hanno votato 5 stelle.

La sagra delle banalità.

A partire dal fatto che, nella patria del lavoro nero, del precariato storico e del caporalato i sindacalisti meridionali intervistati parlano del Jobs act come uno degli elementi che ha fatto votare il Sud nel modo come ha votato.

Patetico il sindacalista siciliano che parla delle masse una volta di sinistra che votano in Sicilia 5 stelle. Masse di sinistra in Sicilia? E quando mai? Dove stanno in una regione in cui storicamente ha sempre vinto il centrodestra (ancora fa male il 61 a 0 nei collegi del Mattarellum).

O quello campano che spara numeri a caso come i 200.000 che a breve perderanno la cassa integrazione per colpa del Jobs act.

E comunque la metafora del gettone telefonico contrapposto all’iphone rimane in tutta la sua enorme verità.

Orgoglioso di aver disdetto la tessera della CGIL 2 anni fa.

  • Il totem dell’articolo 18 e le caricature del Jobs act.

La sinistra ama da sempre vivere di simboli che a lungo andare diventano dei totem. Oggi tra i tanti uno di questi simboli in positivo sarebbe l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori mentre in negativo sarebbe il Jobs act.

Lo ribadiscono in una intervista a Repubblica alcuni dirigenti meridionali della CGIL che colgono l’occasione della sconfitta del PD per una sagra delle banalità.

A niente serve ricordare che fino alla vigenza piena dell’articolo 18 questo strumento non è servito a bloccare la chiusura di aziende ed i relativi licenziamenti di massa.

E non ha impedito che i licenziamenti fossero superiori alle assunzioni come non ha impedito che l’80% delle poche nuove assunzioni fossero assunzioni precarie ed a tempo (il contrario di quello accaduto dopo il 2014 quando le nuove assunzioni erano superiori ai licenziamenti e complessivamente oltre la metà, circa 500.000 erano a tempo indeterminato).

È evidente che l’articolo 18 è solo un simbolo, di quelli inutili che spesso piacciono a certa sinistra.

E questo concentrarsi su un simbolo inutile ha impedito di vedere quanto il Jobs act ha rivoluzionato il mercato del lavoro dal lato della protezione del lavoratore mettendo però fine a quel finanziamento a fondo perduto di aziende decotte attraverso l’uso improprio di uno strumento come la cassa integrazione che toglieva risorse all’ampliamento della protezione sociale in caso di perdita del posto di lavoro.

Come ci ricordano in un esauriente articolo Tommaso Nannicini e Stefano Sacchi “Il Jobs Act ha introdotto la Naspi (con 2,5 miliardi di euro aggiuntivi all'anno): un sussidio che copre il 97% dei lavoratori dipendenti se perdono il lavoro. Questa copertura se la sognano nella maggior parte dei paesi europei. Il sussidio arriva fino a 1.300 euro al mese e dura fino a due anni: un anno in più di prima e i giovani non sono più penalizzati rispetto agli anziani.

C'è la Discoll per i collaboratori e i giovani ricercatori.

Anche gli apprendisti possono ottenere la cassa integrazione.

Un milione e mezzo di lavoratori delle piccole imprese, che prima ne erano esclusi, adesso possono ottenere integrazioni salariali con i fondi di solidarietà.

Ed è stato introdotto il Reddito di inclusione (Rei) per combattere la povertà. Platea e importi del Rei sono bassi, lo sappiamo, e vanno aumentati. Ma c'è per la prima volta nella storia d'Italia.

Certo – scrivono ancora Nannicini e Sacchi - le grandi imprese non possono più usare la cassa per scaricare i costi della loro incapacità manageriale (o delle loro scelte di rilocalizzazione) sulla collettività, perché non la possono usare per sempre, senza pagare un euro. Se la usano a lungo, la pagano di più. Le crisi aziendali irreversibili ora vengono accertate, ma in tutti gli altri casi la cassa resta eccome. E dura fino a due anni come in Germania (addirittura tre con i contratti di solidarietà).

Cosa a che vedere questo impianto con il liberismo, la Tatcher e Blair?

È vero che questo impianto invece è molto simile a quello che è stato la base del patto sociale delle grandi socialdemocrazie europee.

Ed è evidente, concludono Nannicini e Sacchi che “detto questo, non c’è dubbio che servano interventi forti per rendere le politiche attive e della formazione una speranza concreta e non un tema da convegno. Una formazione vera che anticipi il cambiamento e aiuti i lavoratori a trovare lavoro nelle imprese più produttive. E che si debbano trovare ulteriori risorse per allargare gli ammortizzatori sociali. Ma proseguendo lungo le linee aperte dal Jobs act, non tornando indietro”.

  • Il lavoro che cambia.

Il lavoro sta cambiando. Secondo un recente rapporto della McKinsey, 375 milioni di persone dovranno cercare un nuovo lavoro entro il 2030, perché quello che fanno oggi sarà in mano ai robot. Poche settimane fa, a Seattle, negli Stati Uniti, Amazon ha aperto un supermercato senza cassieri e dipendenti che funziona con le telecamere e una app. Ma non è tutto rose e fiori il panorama robotico mondiale. L’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante, ma non sembra essere sempre così pronta a soppiantare il lavoro degli uomini.

C’è un caso che farà riflettere. Accade in California. A Pasadena in particolare. Dopo poche ore di lavoro, Flippy, un automa impiegato in una catena di fast food, è stato licenziato. Riusciva a cuocere fino a 2000 hamburger al giorno, ma il resto dei dipendenti non stava al passo nel confezionare altrettanti panini. “Quando sei in cucina e lavori con altre persone sei abituato a parlare per coordinare le attività. Con Flippy questo non è possibile, devi organizzarti seguendo il suo ritmo”, spiega a Usa Today, Anthony Lomelino di Cali Group. Proprietaria dei fast food in cui il robot era stato “assunto”. E così Flippy, pur restando un’esclusiva della catena Caliburger, è stato momentaneamente messo da parte.

Pochi giorni fa, un altro robot, Fabio, è stato licenziato in Gran Bretagna. Perché? Era impiegato in un supermercato di Edimburgo per accogliere i clienti e rispondere alle loro richieste, ma non ha retto il confronto con i suoi colleghi umani. Mentre questi ultimi riuscivano ad attirare circa 12 clienti in 15 minuti, l’automa ne attirava soltanto due.

  • Le drammatiche colpe dell’Europa. Ed i risolini dell’establishment quando Renzi tentò di scuoterla e coniò l’efficace slogan “Europa sì, ma non così” Le accuse di sgarbo istituzionale. Io ricordo tutto. E ricordo cosa accadde dopo il vertice fallito di Bratislava. Renzi aveva previsto i pericoli per l’Europa ma è stato bloccato dal politicamente corretto dei Napolitano e dei Gentiloni.

È ora, nell’analizzare gli esiti del risultato delle elezioni politiche, di abbandonare la retorica melensa ed inutile sulla Europa. Quella retorica che impedisce di vedere le responsabilità di questa Europa nel trionfo e nella avanzata dei populismi.

Io ricordo come l’establishment immarcescibile italico, le elites che non perdono mai e che si sanno sempre riciclare, commentavano le uscite di Renzi sintetizzate nello slogan “Europa si, ma non così”.

Ricordo le tiratine di orecchie che politici di lungo corso e gli editorialisti a la carte fecero all’epoca al nostro premier accusandolo di scarso garbo istituzionale.

Ricordo la derisione di Renzi quando tentò, in parte riuscendoci, durante il semestre europeo, di rendere più flessibile la tempistica dell’abbattimento del debito.

Non c’è dubbio forse che l’errore di Renzi è stato di non forzare, di lasciarsi irretire da quel politicamente corretto che ha avuto il solo risultato di gonfiare l’onda del populismo e dell’antieuropeismo (l’errore di ascoltare più Napolitano e il suo ministro Gentiloni invece di mettere l’orecchio a terra ed ascoltare il soffio crescente del rancore che maturava aizzato dai seminatori di odio, gli stessi che oggi si presentano come agnellini in doppio petto).

Gentiloni, nel suo anno e mezzo, è stato il perfetto interprete di questa moderazione nei confronti della tecnocrazia europea e Renzi, ormai solo segretario, veniva azzittito ogni volta che cercava di mettere in guardia contro un trantran che avrebbe portato ad una cocente sconfitta dello stesso ideale europeo.

Il livello massimo delle sue chiare esternazioni su questo Matteo Renzi lo raggiunse dopo Bratislava.

In quella occasione disse: “Ho parlato duro quando nel documento presentato non ho trovato una riga su Africa e immigrazione, né una riga su crescita e Europa sociale. Per rilanciare dobbiamo cambiare la direzione dell’Europa, non cambiare il palazzo del summit.

Si finge di non vedere che la questione migratoria non si esaurisce nell’accordo, tutto da verificare, con la Turchia. E bisogna riconoscere che l’austerity europea ha fallito.

È finita come finisce sempre. Qualcuno pone questioni di merito, serie. E altri rispondono con il maquillage dei documenti, con le modifiche degli sherpa, con le virgole cambiate. E in nome dell’unità chiedono di dire fuori che siamo tutti d’accordo.

Non so a cosa si riferisca la cancelliera Merkel quando parla di spirito di Bratislava. Se continua così più che lo spirito di Bratislava discuteremo del fantasma dell’Europa.

A Bratislava abbiamo fatto una bella crociera sul Danubio, tutti insieme. Ma io speravo di rispondere alla crisi provocata dalla Brexit, non solo di farmi un giro in barca.

Li ho portati a Ventotene per costruire un percorso, non per vedere il panorama o mangiare il pesce.

Se in nome di regole burocratiche astruse, qualcuno vuole impedire all’Italia di mettere a posto le scuole con gli interventi antisismici come pensate che possa reagire una famiglia normale? Semplice: darà la colpa all’Europa della propria paura per i figli. Odierà l’Europa considerata responsabile di tutto. Poi non ci stupiamo se crescono ovunque i movimenti populisti e demagoghi.

Non puoi fare allo stesso tempo le condoglianze per Amatrice e poi bloccare gli interventi antisismici in nome del patto di stabilità. L’alternativa all’antipolitica è il buon senso, non la burocrazia”

LO ZITTIRONO. Napolitano si adirò. E molti di quegli editorialisti oggi schiacciati a zerbino sotto le suole di Di Maio, lo redarguirono pesantemente. Incomprensibilmente la stessa sinistra interna al PD invece di schierarsi al suo fianco come un sol uomo trovò l’occasione di criticarlo anche in questa occasione.

  • La sinistra non suscita emozioni. E questo spiega perché si è perso ovunque e soprattutto spiega perché da anni ed anni la sinistra non esercita più nessuna egemonia sulle persone.

Noi umani veniamo dalla notte dei tempi.

Nel nostro cervello è riassunta tutta la nostra filogenesi.

E la parte limbica del cervello, quella dove sono racchiuse le emozioni, è la parte che abbiamo in comune con le specie animali e dentro cui sono depositate le ineliminabili sinapsi neuronali create qualche milione di anni fa (la differenza con le altre specie animali sta nella funzione che svolge il cervello più evoluto, la neocorteccia impedisce infatti al sistema limbico di causare crisi emozionali anormali e incontrollabili. Quindi, la normale espressione delle emozioni richiede il contributo delle aree più evolute del cervello).

Sono sinapsi che richiamano emozioni e sentimenti anche contrapposti, figlie di diverse esperienze filogenetiche.

In quella parte di cervello abbiamo depositate le reazioni emotive legate alle quattro funzioni della sopravvivenza (lotta, fuga, nutrizione, riproduzione): ira, rabbia, paura, piacere, desiderio. 

Ed è da queste primitivissime reazioni emotive che nascono i sentimenti della aggressività, di odio, di rabbia, di paura (sentimenti ancestrali incancellabili e frutto dei tempi in cui l’uomo era senza strumenti preda di una natura selvaggia) ma anche i sentimenti di amore, empatia, solidarietà, fiducia negli altri (risalenti anch’essi alla notte dei tempi quando l’uomo scoprì la loro forza nel difendersi e sviluppare le proprie capacità).

Cosa voglio dire?

Voglio dire che nella stragrande maggioranza degli umani esiste questa bipolarità limbica, la stragrande maggioranza degli umani può essere un “odiatore” ma anche un individuo “empatico” e pieno di amore per gli altri. Può essere aggressivo ma anche pieno di fiducia negli altri.

Può essere di sinistra ma anche di destra.

Ci si può commuovere per i bambini morti e lasciati sulle spiagge dalle carrette del mare e opporsi affinché nel proprio paesino ci sia un centro per assistere 10 richiedenti asilo.

Chi comprende questo meccanismo vince le elezioni.

Ed in questo senso Comunicazione è Potere.

Perché le parole giuste, i frame giusti, costruiti nel tempo (e ci vogliono anni per costruirli) attivano quelle sinapsi.

I populisti, le destre sovraniste e xenofobe sono state brave negli ultimi anni ad attivare i sentimenti di odio, di rancore, di aggressività depositati dalla notte dei tempi nel nostro cervello limbico.

Le sinistre hanno invece pensato che la narrazione razionale e l’elenco delle cose buone fatte bastasse senza capire che quella roba, dice bene Nannicini, doveva stare dentro una “Costituzione emotiva” che non siamo stati in grado di costruire.

Fate pure spallucce, non imparerete mai.

  • Tornare indietro non è certo la soluzione. Le ricette di una sinistra novecentesca sono inserivibili. (da un articolo di Claudia Mancina, filosofa e professoressa di Etica alla Sapienza, nonché studiosa di Antonio Gramsci)

Tornare indietro non può essere in alcun modo la soluzione. Non c’è dubbio che il Pd debba ritrovare la sintonia con i ceti popolari, che sono i più colpiti dalla crisi, e più in generale dagli effetti della globalizzazione. Dubito però che questo obiettivo possa essere raggiunto con la mossa francescana di porsi “al fianco degli umili”, o in mezzo al popolo, o vicino a chi soffre (secondo i diversi linguaggi usati).

Certo che bisogna avere empatia verso le persone in difficoltà; ed è vero che il Pd negli ultimi anni di empatia ne ha mostrata poca. La narrazione ottimista, che voleva stimolare la ripresa civile del paese, è stata forse eccessiva, ha dato la sensazione di indifferenza ai problemi di tanta gente, soprattutto al Sud. Mentre al Nord è apparsa altrettanto indifferente ai problemi della sicurezza.

La comprensione e l’empatia vanno ritrovate; ma la vocazione e l’ambizione di una forza politica è molto più grande, e anche più difficile: costruire un progetto politico che punti a risolvere le difficoltà dei ceti popolari. Il tema dunque è il progetto politico. Viviamo un’epoca di ridefinizione di tutti i nostri abituali parametri: non possiamo pensare di affrontarla con i soliti rassicuranti luoghi comuni.

Si pensa davvero che ai problemi dell’oggi sia ancora adeguato un progetto di sinistra novecentesca, che si limiti a pensare una redistribuzione passiva – divisione di una torta sempre più piccola e rinsecchita?

Il problema drammatico che dobbiamo affrontare è come rilanciare la crescita – non solo economica, ma sociale, civile, culturale – per tutti, nelle difficoltà create da fenomeni come la concorrenza dei paesi emergenti, la delocalizzazione delle attività produttive, la rivoluzione cognitiva prodotta dalla rete.

I ceti più deboli possono essere sostenuti in modo efficace soltanto all’interno di un progetto di crescita, e quindi soltanto all’interno di una alleanza con i ceti più forti e produttivi. Deboli e forti insieme, nel quadro di una netta scelta europeista: solo così si può pensare di vincere la sfida.

Penso quindi che, lungi dal tornare indietro, si debba fare uno sforzo ulteriore nella definizione di una identità politica riformista, più coerente e più consapevole di quanto non sia stata in questi anni. La leadership di Renzi non ha sbagliato per troppo riformismo, ma piuttosto per non avere sufficientemente pensato e difeso il proprio riformismo, almeno nell’ultima fase. Anzitutto all’interno dello stesso Pd.

Letto 6151

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Enzo Puro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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