Le cinque “W” perdute del giornalismo italiano. Ovvero, quando l’opinione prevale sui fatti

Proprio in nome della libertà di stampa e di opinione penso che le funzioni del giornalista dovrebbero essere rigorosamente distinte e separate da quelle dell’opinionista

Letto 6114
Le cinque “W” perdute del giornalismo italiano. Ovvero, quando l’opinione prevale sui fatti

Alla base dello stile giornalistico anglosassone c’è la regola delle Five Ws” o “W-h questions”, ovvero cinque domande composte da una semplice e sola parola alle quali ogni buon giornalista dovrebbe rispondere quando scrive il suo articolo: Who? (Chi?), What? (Cosa?), When? (Quando?), Where? (Dove?) e Why? (Perché?).

Ecco, proviamo ad immaginare un qualsiasi fatto di cronaca, un avvenimento di qualsiasi tipo.

Cosa vorremmo sapere? Semplice: cosa è successo, quando, dove e perché è successo, chi è o chi sono gli attori della vicenda e perché si sono comportati in un certo modo.

Potrebbero bastare poche righe o molte di più. Dipende dal caso specifico, dalla bravura e dallo stile di chi scrive, dallo spazio che gli impone la direzione. Comunque sia, sempre a quelle cinque domande dovrebbe rispondere. Già, dovrebbe.

Un eventuale commento sarebbe meglio se scritto a parte. Al limite all’interno dello stesso articolo facendo però in modo che la notizia sia sempre chiara, precisa, riportata fedelmente. Neutra.

Peccato che questo stile venga sempre meno imitato in Italia dove la linea del giornale e/o l’opinione del giornalista, tanto più se considerato una grande firma e diventato nel frattempo pure star televisiva, tendono sempre più a sovrapporsi alla notizia vera e propria al punto da arrivare in molti casi a stravolgerla del tutto. L’importante sono le vendite, l’audience, gli introiti pubblicitari e, latitando gli editori puri, i giusti appoggi politici e la complice compiacenza di qualche istituto bancario.

Altra regola basilare è quella della fatidica seconda domanda.

Domandare per esempio a un Di Maio cosa farebbe per l’economia, sorbirsi la cantilena del reddito di cittadinanza e non chiedere subito dopo come realizzarlo non è un buon servizio per aiutare i lettori a farsi un’idea precisa sulle intenzioni e le capacità del signorino in questione. Così come nessuno ha chiesto a Berlusconi quale tassa sulla prima casa intende abolire visto che è già stata tolta. Insomma, di esempi ce ne sono a bizzeffe e gli esempi riportati valgono naturalmente per chiunque e per qualsiasi altro argomento.

Ci sono poi altre due regole, stavolta non scritte ma assai praticate, che fanno la fortuna di tantissime testate e di chi vi scrive. La prima è “Cattiva notizia, buona notizia”, la seconda è la cosiddetta regola delle “Tre S”, ovvero soldi, sesso e salute.

Non credo ci sia bisogno di spenderci tante parole, il senso è piuttosto chiaro, tutto esplicitamente volto a soddisfare una vasta e composita categoria di gusti e passioni che vanno dal macabro, alla lacrima estorta, alle più fantasiose pruderie voyeuristiche.

Proviamo a fare mente locale, a ripassare molte delle cose che abbiamo letto o sentito nei notiziari di radio e TV. Riportate in tutte le salse ma sempre ispirate a queste due sacre regole. Pensiamo alle parole e agli accenti usati, ai commenti, ai doppi sensi ammiccanti, ai particolari di certe immagini, a certi primi piani, ai toni degli speakers. Della serie abbuffatevi che al discount c’è il tre per due.

Viene da chiedersi ma perché solo in questi casi si pone la seconda domanda seguita spesso e volentieri da altre e altre ancora? Perché questo scavare e rovistare si pratica prevalentemente nell’ambito della cronaca nera o rosa o dello sport e assai poco nei confronti chi ha il compito di rappresentarci, di governare o di chi aspira a prendere il suo posto?

Pensiamo a certi talk, quando l’intervistato cerca di spiegare le sue ragioni e il conduttore lo stoppa perché altrimenti, se si scende troppo nei dettagli, il pubblico a casa si annoia. Ma come fa ad annoiarsi se si è piazzato davanti alla televisione proprio perché vuole sapere? Ecco come si può arrivare a condizionare, mutilare e distorcere cose e fatti oggettivi o le stesse altrui idee. E lasciamo stare il contorno, composto da un pubblico in studio plaudente a comando. Per dare ritmo, si dice. Un suonatore di bonghi allora potrebbe essere una valida alternativa.

Non si tratta di rimpiangere la delicatezza, l’educazione, di un Enzo Biagi (io le rimpiango).

Talvolta le sue carezze erano in realtà lame affilatissime. Ogni giornalista ha il suo stile ed è un bene, un arricchimento generale. Ma lo stile non basta altrimenti rischia di trasformarsi in autocompiacimento, se non proprio in servilismo, propaganda o tutte e tre queste cose messe assieme.

Purtroppo l’andazzo generale è evidente e le eccezioni sono sempre meno.

Quanti mostri sbattuti in prima pagina? Quanto fuoco dei titoli si affievolisce scoprendo che ben poco ha a che fare con il contenuto dell’articolo? Quanta sciatteria e superficialità, quanto facile copia e incolla da parte di chi avrebbe studiato scienza della comunicazione? E quanto spazio è stato dato a ciò che poi smentiva o ridimensionava tutto quel che aveva trasformato l’inchiostro in veleno?

Giocare con la memoria con lo scopo di mostrarne solo la parte che conviene o addirittura rimuoverla, cancellarla, è un atto criminale, perché a pagarne le conseguenze non sono solo le vittime della mala informazione ma l’intera comunità colpita nel suo diritto fondamentale alla conoscenza.

Che senso può avere il principio sintetizzato da Luigi Einaudi con il suo conoscere per deliberare se il deliberare è viziato da un uso distorto e talvolta malvagio?

E’ davvero strano che tra coloro che di fatto hanno contribuito e contribuiscono a questa situazione c’è chi si scandalizza per il dilagare delle fake news.

Sarà davvero dura riportare i buoi nella stalla se gli si è spalancata la porta. Anche perché in questo caso al posto dei buoi scorrazzano in lungo e in largo ben altri animali, niente e affatto mansueti. 

Letto 6114

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Fabio Lazzaroni

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Aggiornato al 31 marzo 2018

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