“Orchestrare le differenze”, la missione di una nuova forma del Partito
In Algoritmi di libertà Michele Mezza scrive che se ogni forma politica rispecchia il modello produttivo che domina il tempo oggi è l’informazione e non la catena di montaggio l’emblema della produzione sociale a cui bisogna rapportarsi, il nuovo tornio attorno a cui si modellano i rapporti che diventano valore. Sta qui la ragione della crisi irreversibile dei vecchi partiti e il dramma della odierna democrazia in Occidente. Non ci sono più affinità da organizzare ma differenze da orchestrare. Riassumere l’idea della nuova forma Partito nella formula “moltitudine che si condensa”.
Trovo straordinaria la parte finale del libro di Michele Mezza “Algoritmi di libertà” che affronta, alla luce dell’analisi svolta nell’intero saggio, il tema di quale organizzazione politica bisogna costruire per far fronte alle sfide della contemporaneità.
In queste ultime 20 pagine Mezza porta alle estreme conseguenze ciò che in fondo a sinistra abbiamo sempre saputo ma che abbiamo da tempo dimenticato e cioè che “ogni forma politica è lo specchio del modello produttivo che domina il tempo”.
Ed oggi il tempo non è più dominato dalla grande fabbrica “che giostrava sul conflitto tra capitale e lavoro” e generava “lo scontro di due campi che si costruiscono per la permanenza dei propri interessi.”
Il sillogismo “lavoro di massa, consumo di massa, partiti di massa” non è più valido.
Il nuovo sillogismo è “lavori individuali, consumi personali, partiti molecolari.”
Non è più la catena di montaggio l’emblema della produzione sociale.
Ed è l’informazione (diffusa dalle reti informatiche e dagli smartphone), che veicola oggi la portabilità delle relazioni sociali, sta qui “il nuovo tornio attorno a cui si modellano i rapporti che diventano valore.”
Quelli con la testa rivolta all’indietro guardano ad un Partito che aveva la fabbrica come unica matrice sociale.
Togliatti parlava di Partito giraffa con i piedi ben saldi dentro quella matrice ma con il collo che si guardava attorno non superando però l’orizzonte del lavoro fordista.
Continuare a ragionare in questo modo significa andare a caccia di farfalle con una rete dai buchi molto larghi.
La produzione si è smaterializzata. Che non significa che non ci siano più gli operai. Significa che la catena del valore si è spostata sull’immateriale, dai costi di produzione stretti a quelli inglobanti saperi, conoscenze, intelligenza (questo vuol dire che il valore di una scarpa Nike non sta nel costo di produzione ma nel marchio).
E smaterializzandosi la produzione ha impietrito, dice Michele Mezza, la vecchia forma Partito che stava pienamente con i piedi nella vecchia matrice sociale. Una vecchia forma partito che si è impietrita “di fronte alla pressione di una opinione pubblica non più massa uniforme, ma moltitudine di individui, con identità, profili professionali, interessi ed ambizioni caleidoscopicamente differenti se non proprio contrapposti.”
In questo nuovo mondo “il Partito non trova più le affinità da organizzare ma si vede circondato dalle differenze e perde la bussola. La politica del 900 non sa parlare alle differenze, abituata come è stata a crescere nella fornace egualitaria del lavoro.”
C’erano stati pensatori che avevano preavvertito su questi cambiamenti nella catena del lavoro e quindi della conseguente matrice sociale.
Lo stesso Carlo Marx nei suoi frammentari e preveggenti Grundrisse, dice Mezza, intuisce e rimuove poi che la macchina capitalistica non è fatta di ferro e di sudore ma di calcoli e di saperi.
E negli anni 60 del 900 la Arendt previde tutto ciò quando scrisse: “il mondo comune dello spazio pubblico, così come la tradizione lo ha inteso, è stato un mondo della politica ed un mondo del lavoro, è iniziato come un mondo abitato esclusivamente da animali politici ed è finito come mondo popolato esclusivamente da animali che lavorano.”
Questi preavvisi però non furono ascoltati da una politica “troppo sagomata sui rassicuranti schemi gerarchici della fabbrica”.
Il dramma della odierna democrazia in occidente si è consumato nel troppo stretto sillogismo tra politica e lavoro. Perché “non è più il lavoro la base sociale, il valore principe, la materia prima, dei conflitti sociali che animano la dialettica politica. Né tantomeno le identità di massa legate al lavoro” (a scanso di equivoci non stiamo parlando della scomparsa del lavoro fisico, almeno fino ad oggi, ma della sua classificazione secondaria nella scala della creazione del valore delle merci e dei servizi prodotti).
E se i vecchi Partiti sono impietriti e diventati inutili perché non combacianti con le nuove matrici sociali che delineano le società contemporanee (e che le delineeranno sempre di più) allora diventa più chiara la dimensione del problema causato dalla identificazione stretta tra Partito, Democrazia e Politica. Quello che è in gioco è “l’idea stessa che una politica vi debba essere, che una dialettica tra cittadini sulle cose pubbliche debba essere trasparente ed organizzata. La forma di questa non politica è il populismo, quel processo che già i Greci denunciavano, in cui la democrazia diventa demagogia.”
E se, come abbiamo detto in precedenza il Partito perde la bussola perché si vede circondato dalle differenze (e non avendo più affinità di massa da organizzare) allora compito di un Partito contemporaneo è “orchestrare le differenze”.
Non servono più le grandi narrazioni ma serve costruire “occasionali convergenze su singoli obiettivi. La battaglia sul Jobs Act non può poggiare sulla stessa base di consensi della rivendicazione di un nuovo statuto di fine vita.”
Un Partito deve lavorare sulle differenze, mettendole a fuoco ed individuandole singolarmente, incrociando i dati, evitando la cristallizzazione di desuete identità stabili.
Michele Mezza parla di Partiti come “un sistema che condensi le opinioni e ne tragga saperi, prima che consensi, per fronteggiare le trasformazioni sociali e contestarne il controllo ai proprietari degli algoritmi” che sono i nuovi, spaventosi, a/democratici, padroni della economia contemporanea.
Bisogna in sostanza costruire “un network che può battere il network dei dominatori della rete.”
Il nuovo Partito federatore da creare in una società in cui la fabbrica ed il lavoro non sono più creatori di valore e matrice sociale che ingloba tutto, non può essere più “una organizzazione integrale ed integralista” ma deve essere “una community di scopo, un forum permanente con interlocutori sempre diversi, una federazione di soluzioni per ogni singolo problema. Non una mailing list o un sito proprietario” - dice Mezza – “quali quelli realizzati da Casaleggio con Rousseau, dove un ristretto gruppo di administrator usa la bacheca della piattaforma per censire periodicamente un altro ristretto gruppo di followers, annunciando, senza controlli, i risultati della consultazione.
Ma una piattaforma agorà, trasparente e pubblica, gestita consortilmente, come Wikipedia, da una folla di administratos che censisce e misura il parere motivato, e non solo la predilezione emotiva, di un altrettanto rilevante massa di aderenti”.
E la nuova spinta ad un protagonismo individuale di massa non può essere contenuta “nelle semplici consultazioni ultra minoritarie del movimento grillino che ha reso la momentaneità una forma della separazione della loro comunità dal dibattito, usando la rete come una clava, un cruscotto di ordini e disposizioni senza feedback.”
“Moltitudine che si condensa” è la formula con cui può riassumersi la nuova forma Partito.
Un Partito “che si aggrega, che connette in base a temi e discussioni comunemente istruite e documentate, dove proprio il know how rende paritaria la discussione, problema per problema, obiettivo per obiettivo”.
E bisogna avere la consapevolezza che cercare “semplicemente di trasferire i vecchi modelli organizzativi e leaderistici nei nuovi contesti digitali” significa percorrere strade non più praticabili e senza alcuno sbocco.
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Enzo Puro
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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