E’ vivo!

“La verità non è peccato”

Letto 9153
E’ vivo!

La Sicilia come un piccolo poeta che vive in un sottoscala. Emarginato, ma capace di sognare. Con lui, la moglie pazza, il figlio paralitico, metafora dell’immobilismo dei giovani e l’anziano padre ormai svanito. Come il popolo di Orwell alla ricerca della memoria. E’ “Sinfonia d’amore”, uno dei testi teatrali meno conosciuti di Giuseppe Fava. Riparlarne 33 anni dopo la sua morte serve. Eccome. Proprio per la memoria e per i giovani. E i giornalisti. Ma non solo.

Ovunque ci sia un giornalista intento a scandagliare, a ricomporre minuziosamente fili, ci sarà la tenaglia del dubbio, forse la solitudine, ma persisterà la forza della parola e della verità. E ci sarà Giuseppe Fava. Artista poliedrico che non ha bisogno certo di un tributo in più nel giorno dell’anniversario della morte. Da quel 5 gennaio 1984 il giornalismo siciliano non sarebbe stato più lo stesso.

Da quel giornalismo partiranno varie onde come quelle di un sasso in uno stagno. Tributi a Fava ne sono pervenuti da tutte le parti: da illustri colleghi, dal presidente Pertini, dal teatro, perfino dai pentiti di mafia. Dalla scontata agiografia e non solo. Subito dopo l’assassinio, il minuto di silenzio dello stadio Cibali fa eco ai mesi di silenzio di un arcivescovo dal cognome impronunciabile. Bastano ad inghiottire le poche voci di una Catania che non combatte più. Pronta a consegnarsi ad anni di ignavia e che preferisce stare a guardare. Come nei quadri di Fava, dove, accanto a donne tristi, gli uomini dal corpo piccolo faticavano a reggere una testa enorme, simbolo dell’inutilità e della pesantezza del pensiero di fronte alla mafia.

Tra la fine del 1982 e il 1983 il blocco di potere, formato da politica e pezzi delle istituzioni corrotte, imprenditoria malata e mafia, è già in difficoltà: Giuseppe Fava e la sua squadra di giovani giornalisti l’hanno messo subito a fuoco. Suonando la sveglia quando la città cercava di riaddormentarsi. E con il freno tirato della periodicità mensile. Come in una piece teatrale di Fava, fondata sui fatti e dunque tesa alla tonificante denuncia, che alla fine sfocia non nella ribellione, ma in una coscienza quieta, che si sente a posto anche quando non lo è. Tremano i muri del palazzo di Giustizia di Catania, fin troppo permeabili a certe visite criminali. S’impantana compiaciuta la politica, finendo col lasciare campo libero, tra piccole e grandi consorterie, alla diffusa illegalità. I capitali sporchi sono entrati, talvolta anche in pompa magna, nell’economia sana catanese, cambiandone la fisionomia e solo apparentemente rafforzandola. Accanto alla città malata e opulenta cresce quella dell’abusivismo edilizio e delle fogne a cielo aperto.

Il capo indiscusso della mafia catanese Nitto Santapaola, latitante dopo la morte di Dalla Chiesa, prova a traghettare le sue squadracce verso una struttura ormai ipertrofica, ma meno aggressiva e prevalentemente “imprenditoriale”. Ma per questo ancor più “mafiosa”. E dopo aver regolato alcuni conti e lanciato segnali. Come con Giuseppe Fava. Cosa Nostra è uno specchio dialettico della realtà che, riproducendola cerca talvolta di inquinarla, talvolta di adeguarvisi, talvolta di anticiparne i mutamenti. La dolce penombra della mafia avrebbe avvolto Catania oscurando perfino l’Etna.

Il primo numero del giornale “I Siciliani” di Giuseppe Fava nasce proprio a cavallo tra 1982 e 1983. Arriva in edicola come un oggetto volante non identificato. Che genera sempre grande curiosità e una dose di paura. Ed è esaurito in poche ore. Va in ristampa tre volte. Non solo fa nomi e cognomi che altri non si azzardano a pronunciare, figuriamoci a scrivere, ma indaga, rivolta la Sicilia come un calzino, colpisce duro inchiesta dopo inchiesta e vende. Dentro e fuori Catania.

Abituati ai pavidi, la mafia e i suoi accoliti hanno il mal di mare. Perfino Angelo Siino, il plenipotenziario degli appalti per conto di Cosa Nostra, si serve del nuovo mensile per apprendere notizie. Fa paura Fava e la sua squadra, ma fanno più paura i loro tanti lettori. E’ lo strapotere negli appalti degl’imprenditori Costanzo e Graci a tremare davanti ai primi spifferi giudiziari e agli articoli di Fava. Un boss mafioso mette in conto di finire latitante e in galera per qualche anno. Ma lo sgretolamento del sistema di potere di Costanzo e Graci, sospettato di offrire protezione giudiziaria per la mafia di Nitto Santapaola, avrebbe significato l’inizio degli ergastoli. Il mafioso paga sempre più dell’imprenditore e del politico. E spesso paga prima.

A Santapaola occorreva un’altra dose di “sacra” violenza mafiosa e poi instaurarne il fermo biologico. Quindi stipulare la pax con Cursoti, Laudani, Savasta e Pillera, capitalizzando sotto il pelo dell’acqua il consenso acquisito manu militari in una famiglia mafiosa rigenerata.

Sono già i primi articoli del giornale di Fava a segnarne la condanna a morte. Almeno secondo le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Dunque addirittura un anno prima dell’esecuzione. Tutto viene rinviato, presumibilmente per l’indagine del CSM sul Tribunale di Catania. Poi si prova a fermare Fava comprandolo. Gli viene offerta per due volte la direzione di una rete televisiva chiavi in mano. Il Fava giovane e scanzonato, l’avrebbe definito “un colpo di culo”, come ricordava la sua assunzione al Corriere della Sera. Questo Fava invece rifiuta di farsi normalizzare e va avanti con I Siciliani. E’ ancora vigente la tesi di Leonardo Sciascia: “In Sicilia chi scrive è un delatore”. La libertà di parola non è in vendita. E’ conscio di essere isolato. Punto di riferimento di quella che appare una minoranza che coltiva quei valori diventati un’eresia. Gianni Mura la chiamerebbe minoranza etica. Ed anche eretica. Gli introiti pubblicitari de I Siciliani sono quindi ridotti al lumicino. Mentre il resto del giornalismo siciliano si guarda pachidermico allo specchio, si limita a “informare”, che poi è il burocratese di un direttore per definire il collasso dello stretto indispensabile.

Qualcuno in quegli anni si affannava ancora a ritenere non ci fosse la mafia a Catania, rifugiandosi in ogni acrobazia lessicale. Fava ne parlava da un decennio. Gli agguati del 1981-1982 di via delle Olimpiadi e via Iris non solo avevano fatto morti e feriti a livelli record anche per la mafia, ma avevano rivelato la disponibilità di kalashnikov e bombe a mano. Da anni operava a pieno regime l’osmosi tra la famiglia mafiosa di Nitto Santapaola e quella dai tratti ancora in parte rurali di Giuseppe Pulvirenti. Proprio quest’ultima nel luglio ’83 sferra l’attacco contro le istituzioni. E’ il rapimento del presidente della provincia di Catania Salvatore Di Stefano. Durerà poche ore, ma sarà il segnale della sfrontatezza della nuova mafia etnea. E di una politica immobile, quando non asservita alla criminalità. Di Stefano infatti, salvatosi dal rapimento, sarà uno dei tanti spazzati via in quegli anni da inchieste della magistratura.

Poche settimane dopo viene ucciso Andrea Finocchiaro, vicino al deputato socialista catanese Salvo Andò. L’obiettivo inizialmente era proprio Andò. L’omicidio di Finocchiaro rappresenterebbe un segnale ai politici, ma non tutto è chiaro. Salvo Andò uscirà sempre giudiziariamente illeso da coinvolgimenti mafiosi. A sparare con una 7,65 è il rampante Maurizio Avola (poi reo confesso). Che con l’eliminazione di Finocchiaro, viene promosso uomo d’onore. Nel mirino della Cosa Nostra catanese ci sono tre esponenti di spicco della società locale: proprio Giuseppe Fava, il preside di Lettere Giuseppe Giarrizzo e l’imprenditore Mario Rendo. Verrà colpito solo il primo, segno che dopo Fava la strategia doveva cambiare. Tanto che Santapaola si opporrà alla richiesta corleonese di far uccidere il fratello di Beppe Montana.

Lo stesso silenziatore usato per Finocchiaro doveva essere applicato alla pistola impiegata per uccidere Giuseppe Fava. E con tanta ovatta dentro, per non attirare orecchie indiscrete. L’omicidio del direttore de I Siciliani è nuovamente fissato a ottobre ’83, quando la liturgia dei pedinamenti è operativa. Maurizio Avola lo incontra al ristorante “Il Palmento” e ci fa un pensierino. Ma rinuncia per la ressa. C’è anche una calibro 38 pronta nella piazza di Sant’Agata li Battiati, ma passa un carabiniere e Avola rinvia ancora.

In quel mese di ottobre il CSM archivia il caso Catania. Fava ha capito che non gli resta molto tempo, ma non indietreggia di un millimetro. Le intimidazioni le ha fatte sue fin dai tempi del Giornale del Sud. Adesso è diverso e l’eretico va al rogo. Come un nudo caravaggesco che non ha bisogno di difendersi, pronto anche alla morte per poter vivere. E vincere. In nome dell’amore per i siciliani che “non sono mafiosi, ma lottano contro la mafia”. Lo confida al figlio Claudio che è preoccupato. Le parole di Giuseppe Fava diventano più aggressive, come nella conferenza del 20 dicembre a Palazzolo Acreide. Ancora reperibile su Youtube. Come nell’ intervista del 29 dicembre di Enzo Biagi, in cui la vicinanza di Nando Dalla Chiesa a Fava ne nutre la forza dell’invettiva. Dal cavaliere Graci, in quei giorni, Fava riceve un regalo, simbolo della condanna a morte: una grande quantità di ricotta e una cassa di champagne. A Capodanno saluta la figlia Elena.

Del commando che uccide Fava fa parte anche Avola, ma l’esecutore è Aldo Ercolano, nipote prediletto e colonnello di Nitto Santapaola. Secondo Avola sarà poi un poliziotto, tale Giuseppe Giuffrida, a intervenire tempestivamente per sporcare la scena del delitto. Proprio quel poliziotto che aveva fatto d’autista a Maurizio Avola in alcune rapine. Non è l’unico poliziotto di quegli anni organico alla famiglia mafiosa catanese. E una volante dei carabinieri, secondo il racconto di un altro collaboratore di giustizia, “scortava” Nitto Santapaola nei trasferimenti da un covo all’altro. Come nel teatro di Fava in cui si percepisce l’assurdità del vero e la verità dell’assurdo.

Tra i mafiosi catanesi la morte del direttore de I Siciliani viene subito celebrata con champagne, anche se, in nome di un legame che Fava definiva “agnostico”, Graci non fa parte dell’allegra compagnia. La reazione a caldo di un giornalista aveva centrato in pieno l’interpretazione autentica, come tante volte accade, del progetto criminale. E’ Tony Zermo dalle colonne de La Sicilia: “Delitto ordinato alla Mafia da un gruppo di potere politico-economico che si appoggia alla mafia e ne guida le mosse, dando in cambio denaro e protezione”. Arriva puntuale la liturgia mafiosa della delegittimazione della vittima. Il giudice Giulio Cesare Di Natale, che il ministro Martinazzoli si affretterà a far trasferire, dirige le prime indagini. Che vengono avviate in tutte le direzioni, talmente tante che i buchi possono solo allargarsi.

Per venirne a capo serviranno una decina d’anni e saranno determinanti le collaborazioni di Maurizio Avola e altri. Per arrestare il killer Aldo Ercolano basterà invece un mese e mezzo. Un colpo di fortuna permetterà a una volante di intercettarlo proprio insieme a Maurizio Avola il 24 febbraio 1984: stavano andando a fare un omicidio di secondo piano. Avola salta dall’auto in corsa e scappa. Ercolano viene inseguito e arrestato, ma verrà presto liberato. A bordo aveva anche una 7,65 che il questore si affretta a escludere potesse riguardare l’omicidio di Giuseppe Fava.

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Ernesto Consolo

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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