La Sicilia vista dalla Luna
L’anti-anniversario
L’anti-anniversario
- Scritto da Ernesto Consolo
- Pubblicato in Attualità
Quattro adolescenti tra i 13 e i 15 anni uccisi senza pietà. In questo mese di luglio ricorreva l’anniversario. Quarant’anni esatti. I nomi dei quattro ragazzini sono: Riccardo Cristaldi, Giovanni La Greca, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro.
Vengono rapiti in un giorno di festa, domenica 7 luglio 1976: per opera degli uomini di Nitto (Benedetto all’anagrafe) Santapaola, esponente di vertice della mafia di Catania, poi divenutone capo indiscusso fino ad oggi. I quattro ragazzini si sarebbero macchiati di alcuni scippi nel quartiere di San Cristoforo, prendendo di mira anche la madre di Nitto Santapaola. Non è però nemmeno accertato.
Si sussurra poi che alla base del rapimento ci fosse solo una frase infelice a danno di Salvatore Santapaola, fratello del boss. I quattro sequestrati dovevano essere addirittura cinque, ma una fatalità salva un loro amico. Forse l’obiettivo è dar loro soltanto una lezione. Vengono portati prima in una stalla dello stesso quartiere. E quindi trasferiti nella provincia di Caltanissetta, in un’altra stalla situata in località monte Formaggio, nei pressi di Mazzarino: Nitto Santapaola elude così il parere decisamente contrario del capomafia catanese Giuseppe Calderone e del fratello Nino. Anche Francesco Cinardo, capomafia di Mazzarino, pare sia decisamente contrario. Nitto Santapaola pensa invece di trascinare i quattro ragazzini fino a Gela e farli accoltellare con una refurtiva addosso che simulasse il movente.
E’ Salvatore Santapaola a sbloccare la situazione: entra nella stalla con i viveri e viene accolto festosamente dai quattro sequestrati. Che credono di aver salva la vita. Santapaola si fa invece, volutamente, riconoscere e rende “necessaria” la strage. Col placet del capomafia nisseno Di Cristina. Gli “incaricati” arriveranno da Catania e Caltanissetta, formando un corteo di quattro auto. Riccardo Cristaldi, Giovanni La Greca, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro vengono strangolati e gettati in un pozzo profondissimo. Uno di loro probabilmente ancora vivo, perché nessuno ha il coraggio di ucciderlo.
Delle quattro vittime esiste solo qualche foto, come quelle passate come una meteora solo quindici anni dopo su un quotidiano locale. Con quelle c’erano le foto anche delle quattro madri, avvolte nei loro abiti neri, schiacciate da quel dolore che si somma alla paura. Che alimenta quel silenzio, costo incalcolabile della sottomissione. Indispensabile a ingrassare il consenso. Non ci sono tracce tangibili del dolore dei padri delle vittime, di fratelli, sorelle.
In quel luglio 1976, le quattro madri preferiscono fare solo qualche timido sondaggio presso i chiromanti e improbabili viaggi fuori dalla Sicilia. Ma rimanendo in silenzio. Non indossano fazzoletti bianchi come le madri dei desaparecidos a Plaza de Mayo. Non ci sono qui maneggioni delle indagini, fascicoli che scompaiono, perizie corrette col bianchetto. Quella strage non è la “giusta” sanzione per chi invade il territorio della polverina bianca. Nè qualcuno si azzarda a parlare di lupara. Bianca anche questa. Non parla nessuno. Come in una pasoliniana terra vista dalla Luna, in cui essere vivi o essere morti è la stessa cosa. Come il fatto clamoroso sia sfuggito dai radar sia del giornalismo d’ordinanza, sia di quello iconografico, rimane un mistero. Anche un po’ fastidioso. Ma il silenzio di adesso è uguale a quello di allora e ne è conseguenza.
Proprio il silenzio mediatico permette a Nitto Santapaola di cavarsela con un rimprovero davanti ai vertici di Cosa Nostra regionale: qui Salvatore Santapaola si giustificherà dicendo che le vittime erano tutte in età adulta. I quattro non verranno mai ritrovati, anche perché nessuno li cercherà prima che nella zona di monte Formaggio venisse realizzata la superstrada Caltanissetta-Gela. E nessuno avrebbe saputo alcunché, se, in uno degli interrogatori davanti a Giovanni Falcone, il collaboratore di giustizia Nino Calderone non avesse raccontato tutta la storia. E con dieci anni di ritardo. Spiega che il vero movente della carneficina era l’esigenza mafiosa di riaffermare la sovranità dei Santapaola sul quartiere di San Cristoforo, ripulendolo dagli scippatori. Nient’altro. Quattro vite torturate e cancellate, come bambolotti (s)gonfiabili in nome del consenso mafioso.
Nino Calderone era un mafioso di rango, ma non era un killer. Rimaneva sempre almeno un passo dietro gli altri, anche dietro suo fratello Giuseppe. E Nino decide di non prendere parte alla carneficina. Viene criticato perché “depone male”, ma rimane in auto, tirando perfino su i finestrini. Come se quell’auto fosse l’unico luogo in cui potersi difendere dall’incontinenza criminale dei Santapaola, l’unico posto in cui Cosa Nostra non potesse disintegrargli la vita.
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Ernesto Consolo
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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