Mattarella, un delitto italiano
La strategia dell’attenzione
La strategia dell’attenzione
- Scritto da Ernesto Consolo
- Pubblicato in Attualità
La notizia della probabile riapertura delle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella è di pochi giorni fa. Ma è stata subito silenziata. La riportano in pochi, l’approfondisce quasi nessuno.
Piersanti Mattarella era avviato verso un futuro politico di respiro nazionale: fin da quando era Assessore regionale al Bilancio, in nome di una visione manageriale, aveva tenuto puntati i fari sugli appalti. Aveva poi sbandierato il suo ostracismo nei confronti dei cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo, organici alla DC, e al loro progetto di istituire una banca. Mattarella pagava quest’azione di trasparenza: così come le aperture al PCI , in nome di quella “strategia dell’attenzione” avviata dal suo maestro Aldo Moro. Non solo: Mattarella aveva detto di voler “azzerare” la Democrazia Cristiana in Sicilia, consapevole che ne fosse necessaria un’opera di moralizzazione. In questa battaglia, pur essendo in minoranza, aveva accanto il segretario regionale della DC Rosario Nicoletti. Che, all’indomani dell’omicidio, aveva detto alla vedova Mattarella: “Hanno buttato una moneta: o usciva lui, o uscivo io”. Quattro anni dopo Nicoletti si suiciderà, gettandosi da una finestra.
Ma l’eliminazione di Mattarella è anche il punto più alto dello sterminio di una generazione politica siciliana, anzi di un sentiment politico: Michele Reina, segretario della DC palermitana, Cesare Terranova, ex-deputato del PCI e magistrato antimafia, Pio La Torre, parlamentare e segretario del PCI siciliano, Vito Lipari, ex-sindaco DC di Castelvetrano, paese dei Messina-Denaro. Curiosamente una delle armi con le quali viene ucciso Vito Lipari sarebbe stata impiegata sette mesi prima per uccidere Piersanti Mattarella. Se confermata, la scelta non sarebbe una leggerezza: piuttosto un messaggio, anzi una firma. Un’altra arma impiegata per uccidere Vito Lipari comparirà nell’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. Un unico grande disegno, espressione di una perversa convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altre entità, tra le quali certamente massoneria deviata. Obiettivo era destabilizzare per stabilizzare, la Sicilia come, da anni, l’Italia.
Nell’omicidio del Presidente della Regione è, fisiologicamente, coinvolta la Mafia. E, come mandanti, vengono condannati i componenti della Cupola. E’ però evidente la copresenza di altre entità: l’auto impiegata dal commando che uccide Mattarella, non viene fatta ritrovare, data alle fiamme subito dopo. Altra violazione del rituale mafioso è l’arma usata, una calibro 38, “sconosciuta” alla mafia della Sicilia Occidentale. Anomala è la successiva rivendicazione con una telefonata all’ANSA, in cui sedicenti Nuclei Fascisti Rivoluzionari ricordano i caduti di Acca Larenzia. Arrivano poi altre rivendicazioni, di matrice rossa, a scopo di depistaggio. Ma le anomalie sono anche investigative: alcune testimonianze raccolte sul posto, compresa quella della vedova Mattarella, indirizzeranno le indagini sul terrorista nero romano Giusva Fioravanti. Ma lo stesso Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva, con altri pentiti come Sergio Calore e Stefano Soderini, confermeranno gl’indizi. E la successiva ritrattazione di Cristiano Fioravanti non disorienta certo la verità storica. Ad orientare le indagini sembra subito pensare invece il funzionario della Polizia palermitana Bruno Contrada: proprio di quei mesi è una relazione su Contrada del questore Immordino, in cui si parla di scarso impegno e eccessiva cautela nelle indagini. Il questore ne aveva anche chiesto il trasferimento. Invece Bruno Contrada si getta in maniera commovente nelle indagini sul delitto Mattarella: in quest’opera è ben spalleggiato dal nuovo questore Nicolicchia, iscritto alla loggia P2. Contrada e Nicolicchia cercano in tutti i modi di convincere la vedova Mattarella a indicare un mafioso come killer, ma inutilmente. Alcune testimonianze furono raccolte e poi curiosamente non sviluppate. Dell’azione investigativa di Contrada di questi anni si accorgeranno in tanti: alcuni lo promuoveranno tempestivamente numero tre del SISDE, altri lo condanneranno con sentenza definitiva per mafia. Condanna pochi giorni fa confermata in Cassazione.
Nell’omicidio-Mattarella entra certamente in gioco la sete di potere politico-economico della mafia dei Bontate, dei corleonesi in appoggio a Vito Ciancimino e dei Santapaola, in appoggio ai cavalieri di Catania. Ma per le modalità non mafiose e per le contraddittorie dichiarazioni dei pentiti di mafia, è evidente che Cosa Nostra scelse di non sbrigare la faccenda da sola. Proprio in quegli anni, boss mafiosi come Bontate avevano avviato sottotraccia il processo di acquisizione di una parte dei vertici di Cosa Nostra nella massoneria deviata: l’iniziativa era partita direttamente da Licio Gelli ed aveva la nefasta benedizione di un declinante Michele Sindona. Non solo. A Roma e dintorni, Cosa Nostra aveva da anni consolidato posizioni di potere criminale, stringendo accordi con le subalterne realtà della banda della Magliana e dei terroristi neri.
Contro questo maleodorante magma, l’opera del Presidente della Regione Siciliana aveva bisogno di un pieno appoggio dal Governo centrale e pare che, poche settimane prima dell’omicidio, sia stato determinante un incontro di Mattarella col ministro degl’Interni Virginio Rognoni. Lo stesso responsabile del Viminale cadrà poi in contraddizione durante gl’interrogatori. La stessa sentenza contro Giulio Andreotti certificherà le gravissime responsabilità dei vertici della Democrazia Cristiana nella morte di Mattarella.
Le sue parole possono, trentasei anni dopo, disegnare la sua visione della Sicilia di allora, non dissimile da quella di oggi, tante stragi dopo: “Una terra ancora divisa tra rinnovamento e conservazione, che ha in se’ però una fortissima carica civile, un potenziale umano ricchissimo, efficaci strumenti giuridico-politici per il proprio riscatto”. Una Nazione è veramente libera, quando conosce la verità. E in questo senso s’inquadra non solo l’opera di desecretazione avviata da Renzi dall’inizio del suo mandato, ma anche la recente approvazione della legge sul reato di depistaggio, in cui le pene vengono inasprite. Una legge sacrosanta quanto tardiva, ancor di più nel Paese che, per la strategia della tensione e la mafia, ha a lungo rappresentato l’anomalia occidentale.
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Ernesto Consolo
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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