Pensare assieme, sentire uno ad uno

Trovare una idea e un modo comune per preservare e curare questa umanità che ci appartiene e a cui apparteniamo, senza distinzione di lingua, di colore di pelle, di religione

Letto 4377
Pensare assieme, sentire uno ad uno

Nell’arco di ventiquattr’ore siamo stati colpiti da due dolorose, drammatiche notizie: l’incidente in Spagna che ha tolto la vita a un gruppo di ragazze che si accingevano a imbarcarsi nel loro futuro; e gli attacchi terroristici di Bruxelles che hanno tolto la vita e ferito tante persone di diversa età e provenienza che si accingevano a imbarcarsi in un viaggio (di lavoro, di turismo, di necessità personale) o semplicemente ad andare al lavoro nella propria città.

Le notizie ci sono arrivate come sempre dai media e dai Social. E assieme alle notizie, ben presto, e talvolta in contemporanea, sono arrivati i commenti.

Accanto alle reazioni –dettate dal sentimento- di dolore, strazio e solidarietà, abbiamo avuto, come di consueto, anche la caduta a valanga delle congetture, delle critiche, addirittura degli attacchi (due per tutti: al viaggio estemporaneo del nostro Presidente del Consiglio Renzi in Spagna, all’Intelligence belga per l’incapacità di prevenire il tragico attacco) frutto di elaborazione di un pensiero che ognuno ha sviluppato nel modo che gli è più automatico e consueto.

Noi funzioniamo così: a volte, per difenderci dal sentimento doloroso, deviamo immediatamente nella rassicurante, algida (e spesso cinica) ansa del pensiero: astraendoci dai fatti e dagli esseri umani colpiti o coinvolti in questi fatti, e svicolando invece in un intreccio mentale di trame, di elaborazioni, e di giudizi (il più delle volte apodittici: giusto/sbagliato, colpevole/innocente). Con questo tipo di funzionamento ci solleviamo individualmente dalla pena e dalla sofferenza che provocano l’empatia e l’identificazione negli eventi altrui...e risultiamo -dall’alto del nostro pulpito- apparentemente più abili nel comprendere ciò che accade, apparentemente più dotati di distacco e dunque di capacità di giudizio.

I fatti parrebbero disconfermare quest’ultima possibilità. I giudizi elaborati in modo reattivo, e dunque frutto di una incapacità di “stare” anche nel sentimento, risultano nella stragrande maggioranza dei casi opinabili, privi di riferimenti certi o di prove effettive. Però hanno una inevitabile conseguenza: quella di convogliare dietro a sé, in una corrente poco controllabile, molti altri che per qualche motivo hanno scarsa dimestichezza con la pietas, e con le proprie emozioni in genere.

E’ anche comprensibile: pensare “ciò che è accaduto a quelle persone, che hanno perso di colpo la propria vita, i propri parenti e amici in modo straziante, potrebbe accadere anche a me” è un pensiero che fa davvero paura; e che può amplificarsi in una vastità sconfinata di congetture, evocatrici di cieco panico. E allora, certo: molto meglio rifugiarsi nel pensare a chi sia il colpevole o a “cosa ci stia dietro”.

Non scrivo tutto questo per dare a mia volta un giudizio di merito o demerito all’una o l’altra reazione. Ma piuttosto per suggerire una possibilità, che va un po’ contro l’automatismo a cui siamo avvezzi e verso cui siamo tirati e catturati dalla piazza virtuale dei Social e dai media: proviamo a invertire il nostro modo di funzionamento.

Proviamo ad aiutarci a pensare assieme: confrontandoci, chiedendo, dibattendo, per ottenere informazioni e dati certi sull’accaduto in modo da potere, poi, assieme o individualmente, prendere una posizione e/o dare un giudizio.

E per quanto riguarda il sentimento, invece, proviamo a vedercela da soli. Troviamo il coraggio di fare una sospensione di giudizio. Guardiamo le immagini, entriamoci dentro con le nostre emozioni, affondiamoci, lasciamoci ‘toccare’ da esse; leggiamo i resoconti che descrivono gli eventi legati a quelle immagini; e mettiamoci nei panni di chi è vittima o protagonista di quelle immagini e di quei resoconti. E poi, proviamo a sentire con loro e per loro; proviamo a chiederci: cosa avremmo fatto noi nelle stesse condizioni? Proviamo a sentirci fratelli, madri, padri, figli, amici delle persone colpite.

E diamoci la possibilità di un’intercapedine di silenzio, di ascolto: del nostro sentimento e di quello altrui.

Ne abbiamo bisogno tutti –nessuno escluso- per restare umani. E forse, chissà, per trovare poi una idea e un modo comune per preservare e curare questa umanità che ci appartiene e a cui apparteniamo, senza distinzione di lingua, di colore di pelle, di religione.

Letto 4377

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Chiara Tozzi

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Aggiornato al 31 marzo 2018

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