Per il decennale della Leopolda ci saranno anche i fuochi di artificio?

Un articolo/saggio di Enzo Marini sulle prospettive della sinistra italiana, del suo leader più forte, Matteo Renzi, del ruolo che in futuro potrà ancora giocare. La necessità di non attardarsi sulla purezza dei coerenti di turno ma approfittare del tempo guadagnato per far crescere nel paese una riflessione politica di tutti gli attori in campo, compresi i sindacati, che riparta esattamente da quel progetto di riforma sconfitto nel dicembre 2016. Perché Salvini è finito ma il brodo che l’ha prodotto è ancora intatto.

Letto 2472
Per il decennale della Leopolda ci saranno anche i fuochi di artificio?

La difficoltà principale sta nel rendere vicino
ciò che è lontano e convertire gli ostacoli in vantaggi.
Sun Tzu

 In una bella intervista a Il Messaggero, Matteo Renzi suggerì a Nicola Zingaretti una linea di condotta ragionevole e intelligente per il proseguimento della legislatura. Fece capire, senza fraintendimenti, che la durata del nuovo governo dipendeva dalla qualità della squadra.

Lasciata decantare fisiologicamente, senza interventi di poteri strabordanti dai doveri costituzionali - sto pensando alla Giustizia e al suo trentennale e orrido randello mediatico giustizialista, che ha ancora nel governo il suo ministro - una legislatura come questa avrebbe un solo vincitore: il leader che a Marzo 2018 impedì il soccorso al vincitore e che 14 mesi dopo ha azzerato Salvini - il capo nazionalista e antieuropeo la cui linea politica era stata benedetta dall’intervista di Putin al FT, sulla fine delle soluzioni liberaldemocratiche nei conflitti politici e sociali - e che ha obbligato un gruppo parlamentare di oltre 300 membri allo sbando a fare un governo con “quelli di Bibbiano”.

Sappiamo che ci sono forze che non si rassegnano ad accettare l’obiettivo potere di coalizione che Matteo Renzi ha in questo Parlamento.

Sappiamo quanti nemici ossessionati - perché devono sopravvivere, loro sì in groppa alle nostre povere istituzioni - ha dentro il suo campo.

In ultimo si sono aggiunti alcuni che hanno interpretato il #senzadime del 2018 come una colata di bronzo per un anfiteatro di statue immobili e che pensano che il rospo più grande non l’abbiano inghiottito i grillini e che - addirittura - ora sono diventati tali artisti della politica da stritolare l’alleato nuovo!

Gli argomenti per nutrire grandi preoccupazioni non mancano certo, se si ha in mente il vecchiume consociativo e codardo degli eredi della DC e del PC che sostengono Zingaretti.

Ma è sufficiente l’intervista di Matteo Renzi a Il Messaggero per giudicarlo pentito e integrato come fa il filosofo Biagio de Giovanni in un’analisi postata su Ragione politica, che delinea un quadro di fine della politica e di un pessimismo senza via d’uscita?

Le strumentali interpretazioni della posizione centrale del senatore fiorentino hanno a mio modesto parere due difetti.

Il primo è quello di immaginare che la crisi trentennale e sistemica del nostro paese sia risolvibile in scelte di schieramento ideologico, sicché gli stessi critici dell’attuale governo lo definiscono alla stessa maniera della destra e di LeU: un governo di sinistra sinistra mai presentatosi prima sulla scena italiana.

Il secondo è quello di omologare Matteo Renzi dentro la tradizione DC/PCI e non rendergli il merito di una leadership discontinua - laica, riformista e progressista - non riassorbibile perché fondata su un progetto politico ben definito e radicale: la Riforma istituzionale.

Le tortuosità della tattica non possono cancellare la linearità e la coerenza del manifesto politico renziano di Un’altra strada.

Di fatto, per tentare di limitarlo, hanno dovuto liquidare il PD del Lingotto e tornare all’antico. Tornare a cantare Bandiera rossa. Trent’anni dal muro di Berlino trascorsi invano per la nomenclatura della vecchia ditta.

Al primo giro è stato sconfitto. La domanda è: ha abbandonato il suo progetto, il fiorentino, per acconciarsi al trasformismo italico, come paventano alcuni, e al revival neocom?

Io penso di no. Io penso che quella sua scelta non fu strumentale alla contesa per la leadership nel PD.

Io penso che Renzi ha “letto” la crisi del Paese per quella che è: sistemica. Non se ne esce con bipolarismi artificiosi e impotabili, spacciati per nuovi. Né da un capo né dall’altro.

Dicono che una riforma istituzionale alla francese, ancorché auspicabile, sia irrealizzabile, nei tempi correnti. A mio avviso nei frangenti di momento storico della politica accade qualcosa che somiglia all’effetto ottico che si impossessa di chi, camminando su via Piccolomini - i romani sanno di cosa sto parlando - più si avvicina al belvedere più vede la Cupola di San Pietro allontanarsi.

A ben guardare e ascoltare tutti i punti di vista degli attori in campo - senza il pregiudizio di chi pensa di avere in tasca l’unica verità - non si fatica a comprendere che le tessere del mosaico che comporrebbero la riforma, capace di restituire equilibrio, leggerezza e velocità al sistema Italia, siano sparse e frammentate in ognuna delle rivendicazioni politiche che si confrontano.

Dentro le schiere della Lega, che Salvini con la complicità succube e incompetente dei suoi alleati ha deragliato verso un disegno nazionalista e plebiscitario, vivono le originarie rivendicazioni produttivistiche, autonomistiche e antifiscali. Nei 5S, dentro il magma torbido dei desideri sfrenati di una piccola borghesia frustrata e impoverita, si rintraccia la rivendicazione tutta moderna di accorciare il rapporto tra popolo e rappresentanza attraverso l’uso delle moderne tecnologie. Tema vero come è altrettanto vero quello dei controlli e della sicurezza dell’IT. Nel centrosinistra il superamento del bicameralismo è un cavallo di battaglia quarantennale e il tema della stabilità della governance ha acquisito ulteriori, numerosi sostenitori.

La pazienza e la cultura riformista dovrebbero misurarsi con questo compito, ormai urgente, visti i rischi di una recessione devastante: sovrapporre ogni insieme e trovare il denominatore comune per un nuovo contratto sociale, nuove regole costituzionali, nuovi contrappesi tra stabilità dell’esecutivo e pluralismo del legislativo.

I 5S perseguono la riduzione dei parlamentari in forma demagogica ma è facile immaginarsi, per coerenza con l’uno vale uno, che siano per il proporzionalismo puro. Emma Bonino, nel suo lucido intervento al Senato, ha messo in luce la inutilità del taglio ai deputati fuori da un contesto riformatore che non assuma pienamente il tema della fine del bicameralismo. La Lega pendola tra stato federale e un premier forte in grado di governare - lasciamo stare le sciocchezze parafasciste di Salvini sui pieni poteri - FI e il PD di Renzi avevano licenziato, con il patto del Nazareno un progetto di riforma molto vicino a quello francese ma privo della sua compiutezza. Non a caso quel patto, molto utile, che avrebbe reso pleonastico il referendum, naufragò sull’elezione del Presidente, nel sistema vigente dei grandi elettori.

Qual è l’umore che serpeggia nell’opinione pubblica?

Non mi sembra contestabile - dopo una crisi di sistema che si prolunga da quasi trenta anni - che il fascino prevalente possa averlo una soluzione cesarista. Quando ci si meraviglia del successo di Matteo Salvini, a fronte della sua manifesta povertà e rozzezza intellettuale, va tenuto presente che la sua propaganda è stata efficace esattamente per il decisionismo sul punto fondamentale che a torto o a ragione preoccupa milioni di Italiani: la sicurezza.

Né è possibile omettere che la sfiducia nel sistema dei partiti è talmente inappellabile che persino le soluzioni parlamentari più ragionevoli per la messa in sicurezza dei conti del paese - ogni volta che le fazioni populiste e sovraniste prevalgono con i loro messaggi antieuropei - producono inevitabilmente, non appena si restituisce la voce al corpo elettorale, una impennata di consensi tumultuosi intorno al leader percepito come il tagliatore dei nodi.

Salvini è finito ma il brodo che l’ha prodotto è ancora intatto.

Andrà così anche questa volta, se non si riprende, con la partecipazione di tutti, a riscrivere la Costituzione che ci serve per questo secolo tempestoso.

Il governo attuale è un compromesso con i 5S complici e persino anticipatori di Salvini, bastonati fino all’8 agosto, con un gruppo parlamentare allo sbando preoccupato della propria personale sopravvivenza. Il premier attuale ha sconfessato pubblicamente 14 mesi di governo inconcludente, da lui stesso presieduto che ha impiombato il paese mettendone a rischio seriamente la tenuta democratica. La sua credibilità europea dipenderà dalla sintonia con Bruxelles e dal buon lavoro che faranno Gualtieri, Gentiloni, Sassoli nel licenziare e fare approvare un DEF per la crescita.

Solo formalmente Conte è il premier espresso dal referendum effettuato sulla piattaforma di Casaleggio: il commitment del suo maggiore azionista - che non è Zingaretti - è di mettere in sicurezza l’Italia. Se la paura di perdere il posto è il suo maggiore argomento tra i 5S, dovrà mettere nel conto le tensioni molto probabili che potranno venire da alleanze tra pezzi del movimento e pezzi della Cosa Zingarettiana per un revival di assistenzialismo e di meridionalismo retrò.

Ai critici di Renzi suggerisco di attendere quello snodo per giudicare il suo pentimento e di osservare l’intero quadro.

Questa maggioranza, ad esempio è anche suscettibile di aggiunte e variazioni in corso d’opera se dentro FI prevalesse un asse Carfagna/Brunetta, che sta fermentando da lungo tempo. Né avrebbe alcuna razionalità immaginarsi un Matteo Renzi che assiste al perfezionamento di un bipolarismo mortifero per ogni ipotesi di rinnovamento: molto più realistica è la possibilità che nasca un centro con i due poli costretti a farsi forni. Ed è certo che questo, se avverrà, si materializzerà prima della scadenza del mandato presidenziale.

Il compito più impellente non è attardarsi sulla purezza dei coerenti di turno ma approfittare del tempo guadagnato per far crescere nel paese una riflessione politica di tutti gli attori in campo, compresi i sindacati, che riparta esattamente da quel progetto di riforma sconfitto nel dicembre 2016.

Una riforma alla francese è oggi la miglior sintesi possibile in un armistizio dell’odio per un nuovo patto sociale, per un blocco produttori di ricchezza/nuove generazioni. Onde evitare sospetti e colpi di mano dell’ultima ora, la questione decisiva sarà la trasparenza e il protagonismo degli elettori.

Affidarsi, con l’elezione di un’Assemblea Costituente, al popolo sovrano diventa un passaggio pedagogico, ancorché ineludibile democraticamente.

Chi vivrà vedrà: Io non esulto per questo governo ma non ho neanche dubbi sul fatto che il leader che ha impresso questa svolta abbia valutato le mosse future. Non milito più nel suo partito ma in quel popolo riformista che va oltre i recinti della nomenclatura attuale, molto ampio e un po’ rissoso, che però lo riconosce come il leader più efficace e coraggioso.

Quest’anno la Leopolda festeggerà il suo decennale. E ci saranno anche i fuochi d’artificio.

Letto 2472

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.