Perché "ce l'ho" con la sindaca Raggi
Un enorme passo indietro nel percorso dell'emancipazione culturale e fattuale delle donne italiane
- Scritto da Maria Squarcione
- Pubblicato in Roma
Dunque, rispondo a chi mi "accusa" di avercela "personalmente" con Virginia Raggi: valutazioni politiche a parte sulla palese incapacità finora dimostrata e sul portato culturale della sua politica opaca, autoritaria, inefficiente, ipocrita, furba e supponente, la questione sta in effetti su come la sindaca interpreta il femminile in politica.
Premesso che l'essere donne in politica non è di per sé garanzia di nulla, mi disturba proprio l'utilizzo di modalità di comunicazione che rimandano all'isotopia dell'"eterno femminino".
Nel caso specifico di Raggi, si passa dallo stereotipo della bambina innocente a quello della maestrina acida, da quello dell'avvocata impenetrabile e faccia di bronzo a quello dell'"oca giuliva" o della "gatta morta", fino alla palese sedutivisi. Tutti ricorderete il primissimo piano dell'appello finale al voto di Roma, durante il quale, tra il lacrimevole e il seduttivo, la futura sindaca invitava a votare per lei, certamente aiutata dalle strategie mediatiche televisive; o quando ha dimostrato la sua felicità con l'infelicissima frase "è tutto bello, bello, bellissimo"; o quando, è storia di ieri, a Ostia ha invitato a votare per Di Pillo, perché il sorriso e lo sguardo della candidata "vanno verso il futuro".
Di contro, tutti ricorderanno lo sguardo impenetrabile e le risposte ambigue alla vigilia dell'interrogatorio per l'incriminazione di falso o l'arroganza dimostrata durante il balletto degli assessori.
Ecco, il mix di questi stereotipi - poco importa che la persona sia così o meno, qui si parla di immagine pubblica - rimanda ad un'assoluta mancanza di personalità, o meglio ad una personalità che assume, a seconda delle circostanze, movenze stereotipate della donna, così come la cultura maschile spesso ci rappresenta. E che, in politica, hanno come conseguenza quello di parlare all'emotività delle persone e non alla razionalità degli elettori.
Questo modo di comunicare comunque è perfettamente funzionale ad una semantica incoerente e inafferrabile, che si sposta continuamente dal piano del "saper fare", mai completamente dimostrato, a quello del "volere fare", nell'ambito della narrazione del mito dell'"Honestà", che è comune a tutto il cosiddetto Movimento. Ma la Raggi lo interpreta a sua volta mescolando - e quindi mistificando - il piano della credibilità con quello dell'affidabilità, che peraltro non sono mai sottoposti a verifica e si propongono come dati di fatto assiomatici - anche a dispetto dell'evidenza - l'uno in relazione all'altro.
Ecco, sono queste caratteristiche che mi infastidiscono molto nell'atteggiamento pubblico della sindaca, al netto delle sue (in)capacità, perché, pur non immaginando una donna che per essere politica debba "fare l'uomo", mi piacerebbe una persona che individuasse una sua cifra stilistica, fatta di passione e cervello, in grado di comunicare coinvolgimento e argomentazioni, rappresentando così un modello di rispecchiamento anche per chi non l'ha votata.
Invece, quello che poteva essere un trionfo simbolico oltre che politico, nelle mani della Raggi è diventato un enorme passo indietro nel percorso dell'emancipazione culturale e fattuale delle donne italiane.
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Maria Squarcione
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Aggiornato al 31 marzo 2018
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