Casa nostra

La lunga primavera

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Casa nostra

“La mafia non è affatto invincibile. E’ un fatto umano. E come tutti i fatti umani, ha un inizio e avrà una fine”, diceva Giovanni Falcone. A Trapani la mafia sembrava esserci sempre stata. Nessun inizio, né una fine. Negandone la stessa esistenza in città, il sindaco Erasmo Garuccio e il procuratore capo Antonino Coci toccavano invece i tasti giusti. Era questa Trapani alla metà degli anni ottanta. Quella in cui Mauro Rostagno decide di inaugurare una delle sue tante esistenze. E inizia a parlare di mafia, dall’emittente locale RTC.

Quello di Mauro Rostagno non è solo giornalismo. Rostagno guarda i trapanesi da un teleschermo come nessuno li ha mai guardati. Parla ai trapanesi come nessuno fino a quel momento. I temi ovviamente non erano inediti. Ma non con quella capillarità, mai facendo nomi e cognomi. Mai provando a riannodare fili. Non con quella perseveranza, quella che difficilmente la mafia perdona. A tratti con amara ironia. E Trapani era pronta ad accogliere Rostagno. La città si svuota per ascoltare il telegiornale condotto da lui. Nemmeno i mafiosi in carcere vogliono perderlo.

“Oggi combatto la Mafia con la gioia di vivere … la mafia ti umilia … è negazione della dignità dell’uomo … io voglio guardare una persona negli occhi e dirgli sì o no con la stessa intensità e questo la Mafia non lo consente…oggi la lotta alla mafia è più semplicemente una lotta per il diritto alla vita. La mafia è sopravvivere, l’antimafia è vivere”. Così diceva Mauro Rostagno. Nato e cresciuto al Nord, diventa presto più trapanese dei trapanesi stessi. Rostagno mostra di aver capito che i siciliani non sono mafiosi. E che l’etichetta non è che una comoda vulgata, l’alibi prediletto. Ama la Sicilia di un amore oblativo. Si carica l’intera Trapani sulle spalle, chiamandola “Casa nostra”. Attacca il “mito trito e ritrito dei siciliani che tacciono, dei siciliani che sono sottosviluppati, dei siciliani che non hanno senso dello Stato”. Dai primi anni Settanta, Mauro Rostagno è uno dei pochi ad aver letto gli atti della Commissione parlamentare Antimafia. Ma quella era Lotta Continua, un’altra esistenza di Rostagno. Adesso è come un pittore che ha cambiato tecnica, ma non stile. Decodifica Cosa Nostra come pochi. Poi la racconta come nessuno, cambiando Trapani dall’interno. La sua è una campagna di moralizzazione, che trascina anche alcuni parroci locali e dura quasi due anni: tutto il 1987 e la gran parte del 1988. Una primavera in un tempo siciliano dilatato, che Rostagno amava veder scorrere tra l’odore della zagara e del gelsomino.

Il giornalismo di Rostagno smaschera i nuovi equilibri della mafia trapanese. Quelli che in parte rimarranno in piedi fino ad oggi. La mafia di Trapani di quegli anni è ben equilibrata e compatta come una figura geometrica. Rostagno sposa l’intuizione di Dalla Chiesa sull’asse mafioso Palermo-Trapani-Catania, che era costato la vita all’ex-sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. A Trapani la mafia ha il suo cosiddetto zoccolo duro. I morti ammazzati sono relativamente pochi, bassa l’attenzione mediatica. Inesistenti i pentiti. Del Maxiprocesso di Palermo non arriva che un refolo. Qui c’è il rifugio estivo prediletto di Totò Riina per la latitanza. E’ la provincia mafiosa osmoticamente fusa coi palermitani, che la proteggono dai rigurgiti stiddari con azioni condotte personalmente. A colpi di esplosivo, se serve. E’ il luogo in cui si compie il primo attentato dinamitardo di Cosa Nostra contro un’auto lanciata a velocità. Ben sette anni prima di Capaci.

Rostagno indaga con una forza dirompente, come trascinato dal rock dei Dire Straits. Che amava ballare sfrenatamente coi suoi ragazzi della Saman. Arriva vicino al movente dell’omicidio del giudice Ciaccio-Montalto. A sostegno del giornalismo investigativo ci sono anche la sua esperienza di sociologo e quella di terapista. La prima per esplorare gli spazi trascurati dell’opinione pubblica. La seconda per stigmatizzare uno dei business della mafia. La notizia al telegiornale di un morto per overdose gli serve per attaccare chi con gli stupefacenti prospera. Gli editoriali mettono a fuoco anche bilanci comunali farlocchi, appalti inquinati e le ingerenze mafiose nella raccolta rifiuti. E i trapanesi, con Rostagno, riprendono semplicemente a pensare.

“Si muore quando si è lasciati soli, quando si entra in un gioco troppo grande”, diceva Falcone. Mauro Rostagno non è solo. La sua continuità ha colpito a fondo. La “sua” emittente ha moltiplicato gl’incassi pubblicitari, sta per estendere le frequenze alle province di Palermo e Agrigento. Ma il gioco è comunque grande e Rostagno lo ha capito. Quella di Trapani non è solo mafia. Il denaro sporco scorre a fiumi, alimentando un’infinita’ di sportelli bancari e società finanziarie, in una cittadina con diecimila disoccupati. L’autista del capomafia fa l’impiegato dell’Enel. Le intercettazioni telefoniche, tramite uno zelante impiegato della SIP, vengono prontamente notificate a Cosa Nostra. Le logge massoniche sono il comodo strumento di mediazione degli interessi di mafiosi, elementi delle professioni, dell’imprenditoria e delle istituzioni. Con la benedizione di Licio Gelli, di Giuseppe Mandalari, commercialista di Totò Riina, del principe Alliata e la direzione di Giovanni Grimaudo, vicino ai servizi segreti. Pare ci sia coinvolto anche il deputato democristiano Francesco Canino, che in parte ammette. Quando un vicequestore e un maresciallo della Finanza indagano a fondo sulle logge coperte trapanesi, vengono degradati o trasferiti. Nella stessa sede delle logge si trova l’Associazione Musulmani d’Italia presieduta da un altro elemento dei servizi segreti, Michele Papa, legato ai generali Musumeci e Santovito, tanto cari a Gelli.

La presenza di ambigui elementi dello stato fa capolino anche nella struttura che Gladio predispone in quegli anni a Trapani: il Centro cosiddetto Scorpione, che ha delle finalità ufficialmente ignote ai suoi stessi comandanti. Di cui uno, Vincenzo Li Causi, muore in un agguato in Somalia, solo qualche giorno prima di deporre sul Centro Scorpione. Un agguato dalle modalità curiose: Li Causi si trova infatti con tre soldati e un agente segreto, ma sparano solo a lui. Mauro Rostagno intercetta rivelazioni scottanti sull’intreccio massonico-mafioso. Forse anche le inconfessabili operazioni che coinvolgono servizi segreti, non solo italiani, sulle stesse direttrici che porteranno alla morte Ilaria Alpi. Rostagno parla anche privatamente con Giovanni Falcone che, infatti, su Gladio svolge, puntualmente ostacolato, la sua ultima indagine. Molti sono dunque gl’indizi (e le prove) che a Trapani sia serenamente fiorita un’appendice di quello che Saverio Vertone chiamava “lungo golpe”, che ha condizionato la democrazia in Italia per una trentina d’anni. Con Cosa Nostra placidamente acquisita nel contesto. Destabilizzare certo, l’obiettivo possibile, ma anche trafficare in droga e armi. Non basterà a fermare la lunga primavera di Mauro Rostagno. Che sei mesi prima di morire prepara un’edizione straordinaria sugli arresti nelle logge massoniche trapanesi. Finiti con un paio di inedite condanne. E con quest’indagine Rostagno perde anche qualche presunto amico.

“Agli uomini capita di mettere radici e pure il tronco. I rami, le foglie. Quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via. Allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile… Oppure te ne fotti. Cresci, ti allarghi, vivi e rischi”. Parole di Rostagno. La rancida sentenza di morte contro di lui viene emessa dalla mafia tra gli alberi di agrumi di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Uno dei primi ad accorrere dopo l’omicidio è Paolo Borsellino. Ninni Ravazza, collaboratore di Rostagno a RTC, sintetizza: “Questa è una città di mafia che si merita burattini”. Quando il cuore di Rostagno smette di battere, continua a battere quello di Trapani. Per tanti, non solo a Trapani, da quel giorno batte anche più forte e non gli sta dietro nemmeno “Sultans of Swing” dei Dire Straits. Durante i funerali la Trapani dei giovani e degli onesti travolge i discorsi delle poche autorità presenti. Dal pulpito per la prima volta si sente pronunciare la parola “mafia”.

Contro il giornalismo di Rostagno la macchina del fango non era partita tempestivamente. Si era cercato di fermarlo con avvertimenti ben mirati. Pare se ne facesse ambasciatore proprio il democristiano Canino. Contro Rostagno non funziona. Serve la macchina della violenza. Quella di impronta corleonese. La macchina del fango si aziona, come per incanto, dopo la morte, trovando (involontari) appoggi. E trascinando l’impunità del delitto per anni. Ai dilettanti dell’antimafia subentrerà l’azione dei professionisti, come il capo della Mobile trapanese Giuseppe Linares e dei giudici della procura palermitana: l’indagine arriva alla condanna all’ergastolo dei mafiosi, le parti sacrificate per prime nella selezione naturale della criminalità. Il grumo paradigmatico massoneria-servizi-Gladio rimane illeso sullo sfondo, come immanente ad uno scontro a due. E la parte di Trapani imbevuta di criminalità, proprio grazie a Rostagno, diventa kafkianamente immortale. Invece di accartocciarsi sotto i colpi delle forze dell’ordine come un contesto inquinato qualsiasi. Mentre va avanti il processo d’Appello, non tutto sembra ancora chiarito. Mauro Rostagno continuerebbe ad indagare.

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Ernesto Consolo

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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